"L'illusione è la gramigna più tenace della coscienza collettiva: la storia insegna, ma non ha scolari". (Antonio Gramsci)

domenica 13 luglio 2014

Referendum sul Fiscal Compact: venghino siori, venghino … non perdetevi la nuova puntata del teatrino!

Rimbalza, tra un blog e l’altro, la notizia del referendum abrogativo proposto per emendare il testo della legge 243/2012, recante disposizioni per l'attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell'articolo 81, sesto comma, della Costituzione.

Sul sito del comitato promotore, l'invito ad appoggiare i 4 quesiti referendari viene accompagnato da esortazioni del tipo: fermiamo l'austerità ... rompiamo i vincoli che ci paralizzano ... riprendiamoci la crescita !

Ma è proprio così ? E' sufficiente votare il referendum per tornare a crescere ?

Purtroppo, le cose sono ben più complicate di come vengono presentate: se si passa dal livello degli slogan a quello dell'analisi puntuale dei quesiti, ci si accorge che le "limature" proposte al testo della legge 243/2012 toccano aspetti marginali e non hanno alcuna possibilità di bloccare il meccanismo di convergenza verso l'obiettivo del pareggio di bilancio strutturale (cioè corretto per gli effetti del ciclo economico e per le misure transitorie).

Ed i primi ad esserne consapevoli sono gli stessi promotori !
Ammette, infatti, il prof. Realfonzo, uno dei referendari: "I que­siti riguar­dano le dispo­si­zioni di legge non coperte da prin­cipi costi­tu­zio­nali, né da obbli­ghi deri­vanti dall’Unione euro­pea o da impe­gni assunti con trat­tati inter­na­zio­nali" ... ed il motivo è presto detto: solo così possono sperare che la Corte Costituzionale non bocci i referendum, in quanto contrastanti con l'articolo 75, secondo comma, della Costituzione (che vieta i referendum abrogativi di leggi che autorizzano la ratifica di trattati internazionali; per approfondimenti si legga questo articolo).

E allora, a che serve questo referendum ? Perché si dovrebbe partecipare alla raccolta delle 500.000 firma necessarie ?

lunedì 2 giugno 2014

Elezioni europee 2014. Ritorno alla lira? No, meglio 80 euro.

Alla fine il M5S non è riuscito a sfondare ed anzi, ha visto erodere il proprio consenso dal 25,6% raggiunto alle elezioni politiche del febbraio 2013 (camera dei deputati), giù fino al 21,2% delle europee …

… mentre il Partito Democratico targato Renzi è cresciuto dal 25,4% al 40,2%, attraendo gli elettori orfani della Scelta Civica di Monti ed altri delusi in libera uscita dallo stesso M5S e dall’area dell’ ex PDL.

Chi ha sostenuto pubblicamente il M5S ha sempre salutato nei suoi elettori la parte migliore del Paese, quella non connivente con la casta, non corrotta, quella non assuefatta e non rincitrullita, quella ormai disillusa sull’euro, quella che ha trovato la forza per indignarsi e pretendere a gran voce di mandarli tutti a casa.

Ebbene, una fetta di questi elettori ha iniziato a chiedersi cosa ne abbia fatto il M5S dei milioni di voti ricevuti … e la risposta non deve essere stata confortante, considerata la scelta di astenersi dal voto o di cambiare cavallo, affidando le proprie speranze a Renzi o, in misura minore, a partiti come la Lega e Fratelli d’Italia, che hanno incentrato il loro programma sull’uscita dall’euro.
(per un’analisi dei flussi elettorali si veda questo articolo pubblicato su Linkiesta)

La strategia attendista del duo Grillo&Casaleggio l’avevamo evidenziata già lo scorso anno in questo post : il M5S ha scelto di arroccarsi in un'opposizione intransigente, quanto sterile, per poter lucrare politicamente sul malcontento e sulle tensioni sociali che sarebbero derivate dalle politiche di austerità attuate dai partiti tradizionali.
La mossa sarebbe pure riuscita con il precedente governo Letta, impantanato com’era nella palude di una convivenza forzata e litigiosa con il PDL di Berlusconi, ove l’unico obiettivo veramente condiviso era quello di tirare a campare.

Ma con l’arrivo di Renzi la scelta del M5S si è rilevata perdente...

venerdì 18 aprile 2014

Il "bluff" di Renzi

Quello di Renzi è il bluff di un abile istrione che persegue il proprio sogno di potere? Oppure una scommessa coraggiosa sulla possibilità di alimentare la crescita cercando, innanzitutto, di orientare "al bello" le aspettative di famiglie e imprese ?

Questione di sfumature: a poco più di due mesi dall'insediamento nessuno può esprimere un giudizio definitivo sull'azione di governo ... e la prevalenza di una interpretazione o dell'altra dipendono dal livello di fiducia o di pregiudizio che si nutrono.

Una cosa, però, è certa: per i tempi ed i modi con cui si è realizzata l'ascesa di Renzi, essa rappresenta l'ultima, disperata mossa dei partiti di governo di arginare il trionfo dei movimenti di protesta ed euroscettici alle prossime elezioni europee di maggio.

Rispettando la par conditio seguono due punti di vista diversi: quello lapidario di Pierfranco Pellizzetti pubblicato su MicroMega, e poi quello più attendista e speranzoso di Fabrizio Forquet sul Sole24Ore

domenica 19 gennaio 2014

Caro Brancaccio, siamo in crisi ... anche di idee

Ripropongo di seguito alcuni brani significativi (in corsivo) di una recente intervista rilasciata dal Prof. Emiliano Brancaccio, per focalizzare il limite della proposta politica di uscita dall’euro.
 
Partiamo dal presente. “L’austerity non risana i conti. Anzi, può deprimere i redditi a tal punto da rendere più difficili i rimborsi dei debiti … Dal 2008 l’Italia ha perso un milione di posti di lavoro ... le insolvenze delle imprese sono aumentate del novanta percento ... sono il sintomo di una “mezzogiornificazione” in atto, cioè di una tendenza alla desertificazione produttiva.”

Vero. Bisogna però sottolineare che l’austerità NON È ALL’ORIGINE DELLA CRISI.
Piuttosto, l’eccesso di austerità costituisce LA SOLUZIONE SBAGLIATA AD UN PROBLEMA STRUTTURALE DELL’ITALIA, che è emerso all’attenzione del grande pubblico nel 2011, con la crisi del debito sovrano.

Quale problema ? Il fatto che il nostro Paese ha maturato un crescente squilibrio nei conti con l’estero, registrando uscite per importazioni di beni e servizi, rimesse degli immigrati e redditi da capitale, superiori a quanto non riuscisse a incassare per le medesime voci.

La conseguenza di questo squilibrio tra entrate e uscite è stata il crescente indebitamento con l’estero: ad un certo punto gli investitori internazionali hanno perso la fiducia sulla solvibilità (in euro) dello Stato e del sistema bancario, pretendendo tassi più elevati per continuare a finanziare il rischio-Italia.
L’austerità fiscale ed il credit crunch del sistema bancario sono stati utilizzati come strumento per rientrare dal debito estero, deprimendo la domanda interna e, quindi, le importazioni.  In questo senso la manovra ha avuto successo, riportando la bilancia dei pagamenti in saldo positivo già a fine 2012.

 
Fatta questa doverosa precisazione, ci sono pochi dubbi che l’austerità, somministrata da sola e in dosi eccessive, rischi di ammazzare il malato.
Per uscire dalla spirale recessiva in cui siamo caduti, ci sono fondamentalmente tre opzioni:

1.      La riforma politica dell’euro, con l’istituzione di forme di mutualizzazione/monetizzazione del debito dei Paesi membri, finalizzate a garantire un livello minimo di assistenza sociale ai cittadini e programmi di investimento per colmare i gap di competitività.
 
2.       Le cosiddette “riforme strutturali” per la competitività, che dovrebbero migliorare in modo strutturale la nostra capacità di esportazione, allentando il vincolo imposto dall’equilibrio della bilancia dei pagamenti.

3.       L’uscita dall’euro ed il ritorno alla sovranità monetaria.

 

lunedì 6 gennaio 2014

Fuori dall'euro: il mito della svalutazione competitiva

In vista delle elezioni europee di maggio si è rimpolpato il fronte delle forze politiche che si dichiarano contrarie ai vincoli di austerità imposti da “questo” euro, o all’euro tout court.

La soluzione invocata (o minacciata) è quella di ritornare alla cara vecchia lira, così da perseguire una svalutazione competitiva e recuperare il potere di finanziare le attività dello Stato e del sistema bancario attraverso l’emissione di nuova moneta, sottraendosi ai diktat imposti dai paesi creditori.

In altro post si erano evidenziati alcuni dei rischi insiti in una visione politica che assolutizzi il tema della sovranità monetaria quale causa della crisi italiana e via unica per il suo superamento. In questa sede, invece, si approfondiscono i possibili esiti dell’uscita dall’euro, osservando gli effetti dell’ultimo ciclo di svalutazione della lira avvenuto tra il 1992 ed il 1996.

Il periodo che prenderemo in considerazione è il decennio 1992-2001. Esso inizia, appunto, con la crisi finanziaria del 1992 e l’uscita della lira dallo SME, e termina in corrispondenza dell’esaurirsi del ciclo espansivo guidato dall’economia americana, a seguito dello scoppio della bolla dei titoli della new economy e dell’attacco terroristico alle torri gemelle. Nel corso dello stesso, durante l’Ecofin del 24 novembre 1996, venne concordato il rientro della lira nello SME secondo la nuova parità di 990 lire contro 1 marco, che costituirà poi la base di calcolo del cambio lira/euro in vigore dal 1° gennaio 1999.

A consuntivo, si è trattato di un decennio ben più favorevole all’Italia di quanto non sarebbe stato quello successivo, dal quale è scaturita la crisi attuale:

·       l’espansione americana e la forza del dollaro hanno sostenuto le nostre esportazioni;

·       le merci cinesi hanno iniziato a dilagare solo a partire dal nuovo millennio, sospinte dagli accordi commerciali internazionali e, successivamente, dell’arretramento del dollaro, cui lo yuan era agganciato;

·      la Germania era considerata il grande “malato d’Europa”, con una crescita modesta in linea con quella italiana, una disoccupazione crescente e le famigerate riforme Hartz del mercato del lavoro al di là da venire (quindi niente accuse di politica mercantilista o “beggar thy neighbour”).

Mancando tutti questi elementi di “complessità” con cui oggi ci troviamo a fare i conti, sembra dunque che il decennio in parola possa costituire il periodo di osservazione migliore per isolare i possibili effetti di una svalutazione competitiva sull’economia italiana.


Sulla base delle evidenze fattuali di seguito rappresentate, si possono trarre due conclusioni che contraddicono il mito della svalutazione competitiva come soluzione "automatica", "definitiva" e “indolore” per risolvere i problemi strutturali dell’economia italiana e rialzare le sorti dei ceti popolari:
 

1.     Per un paese povero di risorse naturali, entità e sostenibilità dei benefici sulla bilancia commerciale di una svalutazione competitiva "una tantum" non sono scontati, ma dipendono da due fattori:

a.     dall’ampiezza della base industriale e dal posizionamento nei settori posti sulla frontiera dell’innovazione tecnologica e di prodotto, più dinamici in termini di quota degli scambi mondiali e caratterizzati da vantaggi competitivi più difficili da replicare, non solo in un'ottica di incremento delle esportazioni, ma anche di sostituzione delle importazioni con le produzioni nazionali;

b.     dalla capacità della classe politica di tenere sotto controllo le tensioni inflazionistiche che erodono i vantaggi di una svalutazone del cambio nominale, controllando il ritmo di espansione della domanda interna (ampliamento deficit pubblico) e promuovendo la concorrenza sui mercati.


   In particolare, la fase di svalutazione della lira tra 1992 e 1996 ha permesso sì di accrescere le esportazioni, ma con una progressiva perdita di slancio dovuta alla maggiore inflazione interna rispetto agli altri grandi paesi esportatori europei ed al modello di specializzazione in settori relativamente meno dinamici. La svalutazione, inoltre, non è stata in grado di frenare la crescente dipendenza dell’economia italiana dalle importazioni, non solo di natura energetica, ribadendo anche su questo fronte i sopravvenuti limiti di un modello di sviluppo industriale incapace di presidiare i settori posti sulla frontiera dell’innovazione tecnologica, caratterizzati da più elevata intensità di capitale/ricerca.
 
 
2.     A dispetto delle migliori intenzioni, in un contesto di partenza caratterizzato da elevata disoccupazione e moderazione salariale, la ripresa selettiva dei settori esportatori favoriti dalla svalutazione competitiva e l’inflazione "importata", recano un rischio di marginalizzazione ulteriore del lavoro salariato e, simmetricamente, un’opportunità di accumulazione per la proprietà capitalistica, cui potrebbe anche non corrispondere un aumento proporzionale degli investimenti e delle assunzioni, nè la loro destinazione ai settori più innovativi (e meno dipendenti dalla competizione sul costo del lavoro).
   
     
     Su tale tematica, negli anni novanta l'Italia ha conseguito due primati poco invidiabili rispetto agli altri paesi industrializzati: il valore minimo della quota salari sul reddito complesivamente prodotto e il livello massimo di disuguaglianza nella distribuzione del redditi di mercato.

 
Entrambi questi aspetti chiamano in causa il problema prioritario della qualità della classe dirigente italiana e la sua capacità di uscire dall'attuale impasse: tra l'immobilismo di chi vuole difendere le proprie rendite di posizione e l'agitazione populista di chi intende guadagnare facili consensi da cittadini confusi e arrabbiati.

Sarebbe invece necessario fare leva sull'eccezionalità di questa situazione di crisi per riuscire finalmente a convergere su una coraggiosa politica industriale e dei redditi, che definisca chiaramente gli obiettivi su cui pubblico e privato debbono investire per lo sviluppo futuro del nostro Paese, subordinando ad essi gli egoismi e le rendite che lo hanno finora frenato. 

Dopo questa "rivoluzione" si potrà anche affrontare l'eventuale break-up dell'euro ... senza rischiare di esserne travolti ...


Un cordiale saluto.

Emilio L.

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SOMMARIO:

1. DINAMICA DEL TASSO DI CAMBIO

2. EVOLUZIONE DELLE ESPORTAZIONI

3. EVOLUZIONE DELLE IMPORTAZIONI

4. GLI EFFETTI SULLA BILANCIA COMMERCIALE CON L’ESTERO

5. ADESIONE ALL’EURO E PARITA’ DI CAMBIO

6. GLI EFFETTI SUI SALARI E SULLA DISTRIBUZIONE DEL REDDITO

domenica 15 dicembre 2013

La "rivolta dei forconi" e gli intellettuali di sinistra

La "rivolta dei forconi" è stata seguita dagli intellettuali di sinistra con molta attenzione (e qualche conflitto interiore).
 
Pur riconoscendo che siamo di fronte ad un'aggregazione eterogenea e acefala di gruppi sociali e di istanze rancorose in gran parte estranei alla tradizione di sinistra, accomunati solo dall'impoverimento recente e dalla marginalità politica, le posizioni espresse dai nostri maìtre à penser sono state quasi univoche nell'indicare l'esigenza di comprendere la protesta, sostenerla e cercare di indirizzarla.
 
Scrive ad esempo Marco Revelli su MicroMega, che questa fetta di società "non è bella a vedere" ma "sarebbe una scia­gura – peg­gio, un delitto – rega­lare ai cen­tu­rioni delle destre sociali il mono­po­lio della comu­ni­ca­zione con que­sto mondo e la pos­si­bi­lità di quo­tarne i (cat­tivi) sen­ti­menti alla pro­pria borsa".
 
Mentre Salvatore Cumino sui Quaderni di San Precario elogia "i compagni che a Torino, dopo il disorientamento iniziale, hanno scelto di sporcarsi le mani” appoggiando la protesta, con l'obiettivo di "capirci qualcosa prima di tutto" e di "agire una possibile ricomposizione di segno diverso, che connetta su un piano comune questo pezzo di città con gli altri declassati e senza futuro", così da "contrastare l’affermarsi di una destra sociale nei quartieri popolari, nei mercati, ...".

Il fatto è che al di là del fare presenza, per dimostrare vicinanza e piantare la propria bandierina accanto alle altre già presenti sui luoghi della protesta, non si capisce quale prospettiva di progresso possano andare a proporre a questa gente ...

domenica 13 ottobre 2013

Politica industriale e dei redditi: una proposta concreta per arrestare il declino


C’è chi prevede che l’uscita dall’Euro rappresenti l’esito inevitabile di una situazione economica ormai non più sostenibile per i Paesi periferici …

… e chi sostiene animatamente che i cambi flessibili, la ritrovata sovranità monetaria, i controlli sui movimenti di capitale, e così via, siano la condizione necessaria per tornare ad avere crescita e giustizia sociale.

Bene. Ne prendo buona nota. Ma in questo momento non vorrei neanche soffermarmi più di tanto su questa prospettiva:

infatti, se questo è l’unico esito possibile della crisi, significa che l’uscita dall’Euro ci verrà imposta dai mercati finanziari, indipendentemente dalla nostra comprensione e volontà …

… e se invece si tratta di una conquista per cui lottare, vorrà dire quando si dovesse concretizzare in Italia una proposta politica in tal senso, con un programma chiaro per il “dopo” ed un minimo di prospettiva di successo, allora la valuteremo serenamente, senza pregiudizi.

Fino ad allora, fino a che non si avveri uno di questi due eventi, trovo inutile continuare a arrovellarsi sempre su questa prospettiva. Meglio piuttosto interrogarsi su cosa possiamo fare fin da subito per tentare, almeno, di arrestare il declino.

domenica 22 settembre 2013

Uscire dall'Euro: siamo sicuri che sia questa la priorità ?

I dati parlano chiaro: la crisi finanziaria che si è abbattuta sull'Italia è una crisi da bilancia dei pagamenti. Essa è stata causata dalla progressiva perdita di competitività delle nostre produzioni sui mercati internazionali e da un livello di indebitamento dei residenti (innanzitutto del settore pubblico) superiore al risparmio nazionale che avrebbe dovuto finanziarlo.

Come conseguenza, una quota sempre maggiore del debito pubblico e della provvista del sistema bancario è venuta ad essere finanziata da capitali esteri. Fino a quando, nell'estate del 2011, gli investitori stranieri hanno iniziato a dubitare della capacità delle controparti italiane di rimborsare i prestiti o di rimborsarli in Euro, iniziando a smobilitare le proprie posizioni e richiedere tassi di interesse più elevati per compensare il maggior rischio.

Da qui le politiche di austerità fiscale e la stretta del credito bancario, nel tentativo disperato di recuperare l'equilibrio finanziario perduto dal Paese attraverso la contrazione della domanda interna. Ma con gli effetti drammatici che sono sotto gli occhi di tutti: avvitamento dell'economia in una spirale recessiva, fallimenti, disoccupazione, svalutazione dei crediti bancari e stretta ulteriore sugli affidamenti, sofferenza sociale, instabilità politica ...

La domanda sorge spontanea: chi sono i "colpevoli" di questa (nuova) crisi finanziaria italiana ?

domenica 1 settembre 2013

Democrazia bloccata e Keynesismo cialtrone

L'immobilismo del governo Letta rende evidente il fatto che ci troviamo a vivere in una democrazia "bloccata"; intrappolata in una fitta rete di interessi particolari e di rendite di posizione ben rappresentati a livello politico,  originati e alimentati nel tempo dai circuiti della spesa pubblica o, all'opposto, dall'inerzia dell'intervento statale.

Si pensi, ad esempio:
  • ai professionisti della politica che hanno occupato ogni livello di governo, sempre pronti a compiacere i salotti buoni e le clientele elettorali;
  • ai milioni di pensionati trincerati dietro i propri "diritti acquisiti", che se la passano meglio dei lavoratori che faticosamente gli stanno pagando la pensione;
  • alle inefficienze, alla complessità e opacità della pubblica amministrazione, che resistono ad ogni tentativo di riforma;
  • all'evasione fiscale;
  • ma anche alla tolleranza rispetto allo sfruttamento continuativo del lavoro precario e, più in generale, al disinteresse rispetto ad una più equa ripartizione dei profitti generati dalla imprese(e non reinvestiti) tra la proprietà, l'alta dirigenza e la massa dei lavoratori.

Si tratta del risultato perverso di una politica economica definibile come "Keynesismo cialtrone", in cui l’indebitamento pubblico è servito storicamente a finanziare un mix di spesa pubblica largamente improduttiva e clientelare, di evasione fiscale e di interessi passivi sul debito (alla faccia dell'eutanasia del rentier invocata da Keynes).

domenica 19 maggio 2013

Lavoratori schiacciati dalle pensioni (altrui) - seconda puntata

Nella prima parte di questo post si è cercato di descrivere la voragine dei conti pensionistici, avvalendosi delle evidenze del Rapporto elaborato dal Nucleo di Valutazione della Spesa Previdenziale costituito presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Lasciando da parte tutte le erogazioni di natura dichiaratamente "assistenziale" (assegni e pensioni sociali, integrazioni delle pensioni al minimo e maggiorazioni sociali, prepensionamenti, pensioni di invalidità civile e indennità di accompagnamento, ...), nel 2010 le pensioni pagate, pari a 232 miliardi, hanno superato di 40 miliardi i contributi effettivamente versati dai lavoratori, e tale differenza è stata coperta attingendo alle entrate fiscali.

Guardando all'intero periodo 1989-2010 analizzato dal Rapporto citato, si scopre che la copertura dei disavanzi previdenzali ha assorbito entrate fiscali per la cifra mostruosa di 660 miliardi.

Con un tale disavanzo non si può dunque parlare di una gestione puramente "assicurativa", in cui le prestazioni pensionistiche ricevute dai beneficiari corrispondono ad un "diritto acquisito" sulla base dei contributi effettivamente versati. Il sistema pensionistico è piuttosto uno strumento "politico" di redistribuzione dei redditi.

Proprio a tale discrezionalità "politica" devono ricondursi le profonde differenze (ingiustizie?) che si osservano nella generosità dei trattamenti pensionistici riservati alle diverse classi di lavoratori-contribuenti:

        i lavoratori di ieri (pensionati di oggi) risultano in generale favoriti rispetto ai lavoratori di oggi, poiché hanno versato meno contributi e sono andati in pensione più giovani ...
 
               ... inoltre, alcune categorie presentano deficit strutturali tra pensioni erogate e contributi versati ancora più ampi delle altre: si tratta dei dipendenti pubblici, dei coltivatori diretti, degli artigiani, ...
 
                         ... si pensi ad esempio alle baby pensioni dei dipendenti pubblici maturate dopo 15-20 anni di contributi (in un intervento di Giuliano Cazzola sul Sole24Ore, vengono quantificate in 500mila per un onere annuo di 9,5 miliardi) ...

                                      ... ed ai lavoratori autonomi che hanno iniziato a dichiarare redditi realistici solo negli ultimi cinque anni di lavoro per sfruttare tutti i vantaggi del sistema di calcolo retributivo (in un intervento di Alberto Brambilla sul Corriere della Sera, si riporta l'esito dell'analisi effettuata su centinaia di migliaia di posizioni previdenziali, da cui è emerso come un lavoratore autonomo che abbia iniziato a lavorare nel 1970 e sia andato in pensione nel 2005, in media si sia pagato con i contributi versati appena 5 anni e mezzo di pensione su almeno 19 di fruizione attesa).

Giunti a questa consapevolezza, bisogna porsi un semplice interrogativo: la scelta "politica" di dirottare un flusso enorme di risorse al pagamento di pensioni più generose dei contributi versati, se non allo sviluppo del paese, è corrisposta almeno ad un fine sociale di sostegno ai soggetti più bisognosi ??