"L'illusione è la gramigna più tenace della coscienza collettiva: la storia insegna, ma non ha scolari". (Antonio Gramsci)

domenica 15 dicembre 2013

La "rivolta dei forconi" e gli intellettuali di sinistra

La "rivolta dei forconi" è stata seguita dagli intellettuali di sinistra con molta attenzione (e qualche conflitto interiore).
 
Pur riconoscendo che siamo di fronte ad un'aggregazione eterogenea e acefala di gruppi sociali e di istanze rancorose in gran parte estranei alla tradizione di sinistra, accomunati solo dall'impoverimento recente e dalla marginalità politica, le posizioni espresse dai nostri maìtre à penser sono state quasi univoche nell'indicare l'esigenza di comprendere la protesta, sostenerla e cercare di indirizzarla.
 
Scrive ad esempo Marco Revelli su MicroMega, che questa fetta di società "non è bella a vedere" ma "sarebbe una scia­gura – peg­gio, un delitto – rega­lare ai cen­tu­rioni delle destre sociali il mono­po­lio della comu­ni­ca­zione con que­sto mondo e la pos­si­bi­lità di quo­tarne i (cat­tivi) sen­ti­menti alla pro­pria borsa".
 
Mentre Salvatore Cumino sui Quaderni di San Precario elogia "i compagni che a Torino, dopo il disorientamento iniziale, hanno scelto di sporcarsi le mani” appoggiando la protesta, con l'obiettivo di "capirci qualcosa prima di tutto" e di "agire una possibile ricomposizione di segno diverso, che connetta su un piano comune questo pezzo di città con gli altri declassati e senza futuro", così da "contrastare l’affermarsi di una destra sociale nei quartieri popolari, nei mercati, ...".

Il fatto è che al di là del fare presenza, per dimostrare vicinanza e piantare la propria bandierina accanto alle altre già presenti sui luoghi della protesta, non si capisce quale prospettiva di progresso possano andare a proporre a questa gente ...

domenica 13 ottobre 2013

Politica industriale e dei redditi: una proposta concreta per arrestare il declino


C’è chi prevede che l’uscita dall’Euro rappresenti l’esito inevitabile di una situazione economica ormai non più sostenibile per i Paesi periferici …

… e chi sostiene animatamente che i cambi flessibili, la ritrovata sovranità monetaria, i controlli sui movimenti di capitale, e così via, siano la condizione necessaria per tornare ad avere crescita e giustizia sociale.

Bene. Ne prendo buona nota. Ma in questo momento non vorrei neanche soffermarmi più di tanto su questa prospettiva:

infatti, se questo è l’unico esito possibile della crisi, significa che l’uscita dall’Euro ci verrà imposta dai mercati finanziari, indipendentemente dalla nostra comprensione e volontà …

… e se invece si tratta di una conquista per cui lottare, vorrà dire quando si dovesse concretizzare in Italia una proposta politica in tal senso, con un programma chiaro per il “dopo” ed un minimo di prospettiva di successo, allora la valuteremo serenamente, senza pregiudizi.

Fino ad allora, fino a che non si avveri uno di questi due eventi, trovo inutile continuare a arrovellarsi sempre su questa prospettiva. Meglio piuttosto interrogarsi su cosa possiamo fare fin da subito per tentare, almeno, di arrestare il declino.

domenica 22 settembre 2013

Uscire dall'Euro: siamo sicuri che sia questa la priorità ?

I dati parlano chiaro: la crisi finanziaria che si è abbattuta sull'Italia è una crisi da bilancia dei pagamenti. Essa è stata causata dalla progressiva perdita di competitività delle nostre produzioni sui mercati internazionali e da un livello di indebitamento dei residenti (innanzitutto del settore pubblico) superiore al risparmio nazionale che avrebbe dovuto finanziarlo.

Come conseguenza, una quota sempre maggiore del debito pubblico e della provvista del sistema bancario è venuta ad essere finanziata da capitali esteri. Fino a quando, nell'estate del 2011, gli investitori stranieri hanno iniziato a dubitare della capacità delle controparti italiane di rimborsare i prestiti o di rimborsarli in Euro, iniziando a smobilitare le proprie posizioni e richiedere tassi di interesse più elevati per compensare il maggior rischio.

Da qui le politiche di austerità fiscale e la stretta del credito bancario, nel tentativo disperato di recuperare l'equilibrio finanziario perduto dal Paese attraverso la contrazione della domanda interna. Ma con gli effetti drammatici che sono sotto gli occhi di tutti: avvitamento dell'economia in una spirale recessiva, fallimenti, disoccupazione, svalutazione dei crediti bancari e stretta ulteriore sugli affidamenti, sofferenza sociale, instabilità politica ...

La domanda sorge spontanea: chi sono i "colpevoli" di questa (nuova) crisi finanziaria italiana ?

domenica 1 settembre 2013

Democrazia bloccata e Keynesismo cialtrone

L'immobilismo del governo Letta rende evidente il fatto che ci troviamo a vivere in una democrazia "bloccata"; intrappolata in una fitta rete di interessi particolari e di rendite di posizione ben rappresentati a livello politico,  originati e alimentati nel tempo dai circuiti della spesa pubblica o, all'opposto, dall'inerzia dell'intervento statale.

Si pensi, ad esempio:
  • ai professionisti della politica che hanno occupato ogni livello di governo, sempre pronti a compiacere i salotti buoni e le clientele elettorali;
  • ai milioni di pensionati trincerati dietro i propri "diritti acquisiti", che se la passano meglio dei lavoratori che faticosamente gli stanno pagando la pensione;
  • alle inefficienze, alla complessità e opacità della pubblica amministrazione, che resistono ad ogni tentativo di riforma;
  • all'evasione fiscale;
  • ma anche alla tolleranza rispetto allo sfruttamento continuativo del lavoro precario e, più in generale, al disinteresse rispetto ad una più equa ripartizione dei profitti generati dalla imprese(e non reinvestiti) tra la proprietà, l'alta dirigenza e la massa dei lavoratori.

Si tratta del risultato perverso di una politica economica definibile come "Keynesismo cialtrone", in cui l’indebitamento pubblico è servito storicamente a finanziare un mix di spesa pubblica largamente improduttiva e clientelare, di evasione fiscale e di interessi passivi sul debito (alla faccia dell'eutanasia del rentier invocata da Keynes).

domenica 19 maggio 2013

Lavoratori schiacciati dalle pensioni (altrui) - seconda puntata

Nella prima parte di questo post si è cercato di descrivere la voragine dei conti pensionistici, avvalendosi delle evidenze del Rapporto elaborato dal Nucleo di Valutazione della Spesa Previdenziale costituito presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Lasciando da parte tutte le erogazioni di natura dichiaratamente "assistenziale" (assegni e pensioni sociali, integrazioni delle pensioni al minimo e maggiorazioni sociali, prepensionamenti, pensioni di invalidità civile e indennità di accompagnamento, ...), nel 2010 le pensioni pagate, pari a 232 miliardi, hanno superato di 40 miliardi i contributi effettivamente versati dai lavoratori, e tale differenza è stata coperta attingendo alle entrate fiscali.

Guardando all'intero periodo 1989-2010 analizzato dal Rapporto citato, si scopre che la copertura dei disavanzi previdenzali ha assorbito entrate fiscali per la cifra mostruosa di 660 miliardi.

Con un tale disavanzo non si può dunque parlare di una gestione puramente "assicurativa", in cui le prestazioni pensionistiche ricevute dai beneficiari corrispondono ad un "diritto acquisito" sulla base dei contributi effettivamente versati. Il sistema pensionistico è piuttosto uno strumento "politico" di redistribuzione dei redditi.

Proprio a tale discrezionalità "politica" devono ricondursi le profonde differenze (ingiustizie?) che si osservano nella generosità dei trattamenti pensionistici riservati alle diverse classi di lavoratori-contribuenti:

        i lavoratori di ieri (pensionati di oggi) risultano in generale favoriti rispetto ai lavoratori di oggi, poiché hanno versato meno contributi e sono andati in pensione più giovani ...
 
               ... inoltre, alcune categorie presentano deficit strutturali tra pensioni erogate e contributi versati ancora più ampi delle altre: si tratta dei dipendenti pubblici, dei coltivatori diretti, degli artigiani, ...
 
                         ... si pensi ad esempio alle baby pensioni dei dipendenti pubblici maturate dopo 15-20 anni di contributi (in un intervento di Giuliano Cazzola sul Sole24Ore, vengono quantificate in 500mila per un onere annuo di 9,5 miliardi) ...

                                      ... ed ai lavoratori autonomi che hanno iniziato a dichiarare redditi realistici solo negli ultimi cinque anni di lavoro per sfruttare tutti i vantaggi del sistema di calcolo retributivo (in un intervento di Alberto Brambilla sul Corriere della Sera, si riporta l'esito dell'analisi effettuata su centinaia di migliaia di posizioni previdenziali, da cui è emerso come un lavoratore autonomo che abbia iniziato a lavorare nel 1970 e sia andato in pensione nel 2005, in media si sia pagato con i contributi versati appena 5 anni e mezzo di pensione su almeno 19 di fruizione attesa).

Giunti a questa consapevolezza, bisogna porsi un semplice interrogativo: la scelta "politica" di dirottare un flusso enorme di risorse al pagamento di pensioni più generose dei contributi versati, se non allo sviluppo del paese, è corrisposta almeno ad un fine sociale di sostegno ai soggetti più bisognosi ??

sabato 27 aprile 2013

Lavoratori schiacciati dalle pensioni (altrui) - prima puntata

Come ho cercato di condividere qui e qui, il fatto che il paese si ritrovi oggi a vivere "al di sopra delle proprie possibilità", gravato dal debito accumulato verso l'estero, non dipende tanto dal livello della spesa interna e neppure dall'entità, in sè, della quota intermediata dallo Stato, il cui ruolo è anzi è essenziale per riuscire a coordinare le risorse di un paese e focalizzarle su obiettivi di rilevanza strategica.

Il nodo vero è un altro, e chiama in causa la destinazione della spesa: in uno scenario in cui nuovi paesi emergenti si sono affacciati sul mercato mondiale per reclamare quote crescenti di lavoro e reddito, una parte troppo esigua è stata investita per rinnovare i fattori competitivi del nostro paese ed il suo modello di sviluppo.

Per troppo tempo, infatti, la Politica ha gestito la spesa pubblica e l'imposizione fiscale quale strumento per contendersi il consenso nell'immediato, non disdeganando di farsi tirare la giacchetta da gruppi di interesse e categorie di ogni sorta.

Le pensioni rappresentano il capitolo più importante della spesa pubblica e l'esempio più eclatante del suo appiattimento su interessi particolari declinati al tempo presente. Per rendersene conto è sufficiente leggere il Rapporto sul sistema pensionistico obbligatorio elaborato dal Nucleo di Valutazione della Spesa Previdenziale costituito presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

domenica 21 aprile 2013

Il Movimento 5 Stelle ed i calcoli di bottega

Beppe Grillo ha bollato la rielezione di Napolitano come un "colpo di stato".

I suoi simpatizzanti affermano che per il paese si tratta della scelta peggiore che potesse essere presa.

E non c'è da dubitare che qualsiasi governo dovesse nascere senza la partecipazione del M5S sarebbe condannato senza attenuanti.

Considerato il peso che il M5S ha nel nuovo parlamento ed i tentativi per raggiungere un'intesa promossi dal PD, le interpretazioni possibili sono due:

  1. la guida del M5S non è riuscita ad evitare "il peggio" perchè si tratta di una manica di sprovveduti;
  2. la guida del M5S ha deliberatamente accettato che si verificasse "il peggio" perché conviene così.
Ipotizzando che la nr. 1 non sia la risposta corretta, restano da delineare i termini del calcolo di convenzienza che spinge il M5S a rifiutare il compromesso che permetterebbe ai suoi rappresentanti di entrare nella "stanza dei bottoni" e far valere le proprie idee.

La mia opinione è che il M5S in questo momento non ci tenga affatto a governare.

In una situazione di crisi come quella attuale, sul governo si scaricano aspettative e tensioni sociali elevatissime, a fronte di spazi di manovra angusti che possono essere allargati solo al prezzo di ulteriori manovre fiscali.

In questo sentiero stretto ed irto di ostacoli, non vi sarebbe "gloria" a buon mercato per il M5S, bensì il rischio di inciampare perdendo per sempre l'aurea della novità rispetto ai partiti tradizionali ed imboccare la parabola discendente.

Meglio allora che siano i soliti, vituperati partiti ad andare avanti assumendosi gli oneri del governo; mentre il M5S si arrocca all'opposizione in attesa di vedere passare il cadavere del nemico trasportato dalla corrente del fiume.

Se la guida del M5S punta a prendere più voti nelle prossime elezioni, il ragionamento non fa una piega.

Ma nel riconoscerlo rimane una perplessità, un'amarezza ...

... il M5S è dunque disposto ad accettare "il peggio" oggi per poter prendere più voti domani ...

... baratta quello che esso stesso giudica essere l'interesse generale del paese, ovvero il grande cambiamento, per un proprio tornaconto politico. 

Ma allora cosa differenzia i rapprsentanti del M5S da quelli degli altri partiti, accusati di essere attaccati al loro potere? Solo il fatto di essere facce nuove come lo erano a suo tempo quella di Berlusconi e di Bossi, e come si propone oggi Renzi ?

Basta! Non c'è più tempo per calcoli e tattiche. Neanche per il M5S. La sofferenza viva delle persone deve imporre a chi abbia chiesto agli elettori il mandato di governare il paese, di smetterla con i calcoli di bottega, e di svolgere la propria missione con assoluta dedizione e generosità senza pensare agli esiti della successiva competizione elettoriale. La Politica deve essere al servizio del Paese e non viceversa!

Un cordiale saluto.
Emilio L.

mercoledì 17 aprile 2013

Uscire dall'euro? Una possibile evoluzione della crisi che non giustifica l'inerzia nel presente

Pubblico di seguito un paio di commenti ricevuti al mio precedente post Spunti di riflessione, nel quale avevo parlato delle cause della crisi e formulato delle proposte per un modello di sviluppo alternativo.

I commenti sono apparsi su un blog che si chiama Orizzonte48.
 
Mr Quarantotto
Vedo che sei assestato sulla linea che "abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità"; che addirittura l'aggregato di "spesa corrente, consumi e investimenti immobiliari" sarebbe la causa dell'eccesso di importazioni, senza menzionare il vincolo della moneta unica e i tassi di cambio reale che, a tacer delle manovre tedesche su salari, IVA e sussidi diretti alle imprese, sconsigliano comunque le aree valutarie. Specie se, prive di sistema di trasferimenti, sono gestite solo da una BC monetarista e deflazionista (che induce la convenienza delle politiche tedesche in violazione dei trattati). Sostanzialmente hai messo su un blog per lodare il pareggio di bilancio e la sua gestibilità come trauma minore (rispetto a ragionamenti sull'uscita dall'euro che sarebbero di dubbia correttezza).
 
Lorenzo Carnimeo
Fosse stato bravo, si sarebbe guardato bene dal citare consumi e investimenti immobiliari tra le cause della crisi dopo aver sprecato un intero post precedente per sostenere che il debito privato non c'entrava nulla e che tutta la responsabilità era da attribuirsi al disavanzo del settore pubblico (leggere per credere!). E' evidente che le due versioni dei fatti non vanno d'accordo e si contraddicono a vicenda.
 
Non avendo avuto l'opportunità di vedere pubblicata la mia replica su quel blog ... lo faccio qui.

giovedì 11 aprile 2013

Spunti di riflessione sulla crisi e su un nuovo modello di sviluppo

Partiamo da un paio di fenomeni apparentemente banali.

Primo: le nostre case si sono riempite delle nuove meraviglie offerte dalla tecnolgia digitale (schermi, lettori, videogiochi, smartphone, tablet ...).

Secondo: sulle nostre strade si vedono sempre più auto "importanti" (se consideriamo alcuni marchi blasonati di proprietà tedesca  - audi, bmw, mercedes e mini - la quota sulle immatricolazioni italiane è aumentata costantemente, passando dal 6,28% del 2000 al 10,53% nel 2011).

Sono solo due esempi di scelte di acquisto (o aspirazioni) diffuse e legittime.

Ciò che le accomuna è che si tratta di manufatti importati, come ormai la maggior parte di quelli di cui ci serviamo quotidianamente. Ogni volta che li acquistiamo, una parte del reddito nazionale fuoriesce dall'Italia e non può essere rimessa in circolo come consumo, nè può diventare risparmio per finanziarie gli investimenti.

Importare dall'estero è cosa normale. Si pensi al petrolio ed alle materie prime di cui il nostro paese è privo. Ma diventa un problema se il paese non riesce a compensare i flussi di pagamento in uscita sull'estero con altri in entrata, originati da esportazioni, turismo e così via.

Altro problema è il livello di indebitamento dei residenti (pari alla somma di quello pubblico e di quello privato, contratto da imprese e famiglie), che è cresciuto ad un ritmo più sostenuto del risparmio nazionale che dovrebbe finanziarlo.

In entrambe i casi, si tratta di squilibri che generano una dipendenza del paese dal credito che gli viene concesso da investitori stranieri. Se il fenomeno diventa strutturale e le risorse che il paese assorbe non servono ad accrescere la competitività delle sue produzioni, arriva il momento in cui gli investitori iniziano a temere il rischio di subire delle perdite, vuoi perche il debitore potrebbe dichiarare default e rimborsare solo parzialmente il suo debito, vuoi perchè potrebbe rimborsarlo in una moneta svalutata. La conseguenza è che gli investitori stranieri iniziano a smobilizzare le proprie posizioni sull'Italia (titoli di stato e crediti verso le banche) e richiedere tassi di interesse sempre più elevati per continuare a rifinanziare il debito, quale compensazione del maggiore rischio.

La crisi finanziaria che ha colpito l'Italia è stata innescata proprio dall'accumularsi di questi squilibri (per averne evidenza quantitativa si legga l'ultimo rapporto della Commissione Europea In-depth review for ITALY).

Volendo sintetizzare, si può affermare che l'aggregato costituito dalla spesa corrente dello Stato, dai consumi delle famiglie e dagli investimenti per l'acquisto di immobili ad uso abitativo, dal quale originano gran parte delle importazioni e dell'indebitamento verso l'estero, risulta sbilanciato rispetto alla capacità del nostro sistema economico di vendere beni e servizi ai non residenti. Questo significa che il paese, a livello macroeconomico, è vissuto per molti anni "al di sopra delle proprie possibilità".

domenica 7 aprile 2013

Crisi del debito pubblico: una storia già vista ...

Negli anni duemila e fino allo scoppio della crisi del nostro debito sovrano, nessuna parte politica si è levata per denunciare il crescente indebitamento dell'Italia verso l'estero, e proporre misure restrittive della spesa funzionali al riequilibrio dei flussi con l'estero, o una radicale riqualificazione di questa spesa a supporto della competitività del sistema industriale.

Sembra in effetti una storia già vista... proprio come negli anni Ottanta, anche questa volta il problema dell'indebitamento non è stato affrontato per tempo.

Guai a formulare foschi presagi! Non bisogna scontentare i cittadini! Si fa macelleria sociale! Si perdono le elezioni! Meglio allora tirare a campare... fino all'arrivo dell'immancabile resa dei conti, nella quale i problemi non affrontati in precedenza si ritrovano drammaticamente ingigantiti (effetto "snow ball").

Eppure grazie all'entrata nell'euro, lo Stato italiano ha potuto beneficiare appieno della riduzione dei tassi di mercato. Tra 1998 e 2010 la spesa per interessi sul debito pubblico si è ridotta ogni anno in media di 25 mld di euro rispetto a quanto veniva pagato in precedenza (vedi grafico). Complessivamente si è trattato di una somma superiore ai 320 miliardi di euro!

Arrivati sull'orlo del baratro, alcuni accostano la situazione dell'Italia a quella dell'Irlanda o della Spagna, affermando che la crisi finanziaria è stata originata dalla dinamica del debito privato e non dal livello raggiunto dal debito pubblico, che anzi in quegli anni è rimasto piuttosto stabile in rapporto al Pil.

Ma costoro prima di plaudire alla stabilità del debito pubblico, dovrebbero spiegarci dove sono andati a finire i 320 miliardi che lo Stato ha risparmiato in termini di minori interessi. Dovrebbero dirci come è stata "investita" questa montagna di soldi, o perchè non è stata utilizzata per abbattere il debito.

E quando si addita come causa della crisi la dinamica del debito privato, per onestà intellettuale si dovrebbe pure riconoscere che in Italia non c'è stata la bolla immobiliare che si è osservata nei paesi sopra citati e che l'indebitamento privato, pur se in crescita, si è mantenuto su livelli inferiori rispetto a quelli della zona euro.

La realtà è che la posizione finanziaria netta del settore privato ha comunque sempre evidenziato un avanzo su livelli ben superiori a qualli dei paesi della zona euro. Mentre, all'opposto, il settore pubblico si è mantenuto su livelli elevati di disavanzo, pur avendo potuto beneficiare del calo della spesa per interessi.

Tornando alle miserie del presente ... si osserva come il livello raggiunto dalla disperazione sociale fa oggi pendant con il disorientamento, la frammentazione, la corsa allo scaricabarile, la ricerca di nemici esterni e di complotti ai danni dell'Italia, la tentazione del ritorno all'autarchia finanziaria e commerciale ... insomma, niente di particolarmente nuovo nella nostra Storia.

Un cordiale saluto.
Emilio L.

sabato 6 aprile 2013

Euro causa di tutti i mali ?

Si può ritenere che la crisi che ha avviluppato la maggior parte dei paesi di più antica industrializzazione, con il suo seguito di impoverimento, disorientamento e rabbia sociale, sia la conseguenza di alcuni grandi mutamenti di portata storica, tra loro fortemente legati.

Elenco quelli che mi sembrano più significativi (tralsciando, per carità di patria, le peculiarità che hanno aggravato la posizione del nostro paese):

1. il trasferimento di reddito e lavoro a livello mondiale a favore dei paesi usciti dal giogo del colonialismo, ricchi di petrolio, materie prime e serbatoi di manodopera a buon mercato;
 
2. una distribuzione del reddito all'interno delle comunità nazionali che ha favorito eccessivamente il capitale e le sue tecnocrazie, a scapito del lavoro;

3. la deregolamentazione del sistema bancario e finanziario internazionale, che ha permesso l'adozione di politiche di impiego spregiudicate e prassi speculative foriere di instabilità e crisi;

4. la schiavitù culturale verso un modello di sviluppo e di benessere basato sul consumo vorace di beni materiali appropriabili.


Invidio, ma allo stesso tempo temo, le certezze di quanti ritengono che le sfide che la nostra comunità nazionale si trova oggi ad affrontare, possano trovare composizione nella scelta di uscire dall'euro.

Guardando poi la questione da un punto di vista meramente pratico, la via "politica" di uscita dall'euro richiede che nel paese ed in parlamento si formi una maggioranza assoluta che creda, con assoluta certezza, che questa sia l'unica priorità da perseguire.

Quand'anche i ragionamenti sul ritorno alla lira fossero corretti, se consideriamo il livello di consapevolezza del cittadino medio e la comprensibile resistenza ad ogni sovvertimento dell'ordine, la maggioranza necessaria all'uscita dell'euro potrà crearsi solo se il nostro paese raggiungerà condizioni di sofferenza paragonabili a quelle sperimentate dal popolo greco (le quali, tra l'altro, non sono ancora sufficienti a convincere i cittadini di quello Stato ad uscire dalla moneta unica ...).

Ecco... io mi auguro da una parte che il nostro Paese non arrivi a tale livello di disperazione sociale ... e, dall'altra, che non si debba aspettare di uscire dall'euro per cercare di dare ai suoi cittadini più opportunità e più giustizia.

Un cordiale saluto.
Emilio L.

venerdì 5 aprile 2013

Germania-canaglia! Euro-canaglia!

Negli anni che hanno preceduto la crisi del debito sovrano dei paesi "periferici", la Germania ha registrato un tasso di inflazione inferiore a quello medio dell'area Euro. Questo differenziale di inflazione, unito alla forte crescita della produttività dei fattori, hanno avuto per la Germania l'effetto di una svalutazione indiretta rispetto ai Paesi  che, pur condividendo la medesima moneta, presentavano una dinamica più sfavorevole di quelle variabili.

       Germania canaglia!

Guardando all'Italia e soffermandosi solo sul dato dell'inflazione,  c'è da interrogarsi su come sia stato possibile registrare un ritmo di crescita dei prezzi più accelerato rispetto agli altri Paesi ...

... sia negli anni in cui il PIL stagnava ...

      ... ed anche in quelli in cui il PIL franava!

A quanti oggi sparano a zero sull'euro come causa delle nostre difficoltà, non importa neanche approfondire quali siano state le origini sottostanti la nostra "diversità" ... non importa, ad esempio, se la maggiore inflazione sperimentata in Italia sia il risultato (se non della crescita, che non s'è vista!) di un conflitto distributivo che ha penalizzato la dinamica reale dei nostri salari, per ingrassare categorie e soggetti forti che possiedono il potere di mercato di imporre i prezzi ...

... perché la responsabilità è, a prescindere, degli ALTRI: tedeschi, austriaci, olandesi ... colpevoli, in questo caso, di non essersi adeguati ai nostri livelli di inflazione e di avere creato (anche per tale via) i presupposti per accrescere la competitività delle loro aziende a scapito delle nostre!

Insomma: ci piace farci menare per il naso per anni dai siparietti televisivi dei politici nostrani e poi, quando d’un tratto ci svegliamo perché il livello della disperazione sociale inizia a toccarci i piedi, piuttosto che guardarci dentro e riconoscere inerzie e connivenze per tentare di porvi finalmente rimedio, riteniamo più comodo andarci a cercare il primo "untore" cui rovesciare la causa dei nostri mali ...

... e pertanto: Germania canaglia! Euro canaglia!
 
Ma solo per i più acculturati, seguaci dei vari Bagnai & Co.

Per quelli che preferiscono una risposta più "de panza" vale il generico, intramontabile:

     politici vaff----- !!

Un cordiale saluto.
Emilio L.