La "rivolta dei forconi" è stata seguita dagli intellettuali di sinistra con molta attenzione (e qualche conflitto interiore).
Pur riconoscendo che siamo di fronte ad un'aggregazione eterogenea e acefala di gruppi sociali e di istanze rancorose in gran parte estranei alla tradizione di sinistra, accomunati solo dall'impoverimento recente e dalla marginalità politica, le posizioni espresse dai nostri maìtre à penser sono state quasi univoche nell'indicare l'esigenza di comprendere la protesta, sostenerla e cercare di indirizzarla.
Scrive ad esempo Marco Revelli su MicroMega, che questa fetta di società "non è bella a vedere" ma "sarebbe una sciagura – peggio, un delitto – regalare ai centurioni delle destre sociali il monopolio della comunicazione con questo mondo e la possibilità di quotarne i (cattivi) sentimenti alla propria borsa".
Mentre Salvatore Cumino sui Quaderni di San Precario elogia "i compagni che a Torino, dopo il disorientamento iniziale, hanno scelto di sporcarsi le mani” appoggiando la protesta, con l'obiettivo di "capirci qualcosa prima di tutto" e di "agire una possibile ricomposizione di segno diverso, che connetta su un piano comune questo pezzo di città con gli altri declassati e senza futuro", così da "contrastare l’affermarsi di una destra sociale nei quartieri popolari, nei mercati, ...".
Il fatto è che al di là del fare presenza, per dimostrare vicinanza e piantare la propria bandierina accanto alle altre già presenti sui luoghi della protesta, non si capisce quale prospettiva di progresso possano andare a proporre a questa gente ...