"L'illusione è la gramigna più tenace della coscienza collettiva: la storia insegna, ma non ha scolari". (Antonio Gramsci)

giovedì 11 aprile 2013

Spunti di riflessione sulla crisi e su un nuovo modello di sviluppo

Partiamo da un paio di fenomeni apparentemente banali.

Primo: le nostre case si sono riempite delle nuove meraviglie offerte dalla tecnolgia digitale (schermi, lettori, videogiochi, smartphone, tablet ...).

Secondo: sulle nostre strade si vedono sempre più auto "importanti" (se consideriamo alcuni marchi blasonati di proprietà tedesca  - audi, bmw, mercedes e mini - la quota sulle immatricolazioni italiane è aumentata costantemente, passando dal 6,28% del 2000 al 10,53% nel 2011).

Sono solo due esempi di scelte di acquisto (o aspirazioni) diffuse e legittime.

Ciò che le accomuna è che si tratta di manufatti importati, come ormai la maggior parte di quelli di cui ci serviamo quotidianamente. Ogni volta che li acquistiamo, una parte del reddito nazionale fuoriesce dall'Italia e non può essere rimessa in circolo come consumo, nè può diventare risparmio per finanziarie gli investimenti.

Importare dall'estero è cosa normale. Si pensi al petrolio ed alle materie prime di cui il nostro paese è privo. Ma diventa un problema se il paese non riesce a compensare i flussi di pagamento in uscita sull'estero con altri in entrata, originati da esportazioni, turismo e così via.

Altro problema è il livello di indebitamento dei residenti (pari alla somma di quello pubblico e di quello privato, contratto da imprese e famiglie), che è cresciuto ad un ritmo più sostenuto del risparmio nazionale che dovrebbe finanziarlo.

In entrambe i casi, si tratta di squilibri che generano una dipendenza del paese dal credito che gli viene concesso da investitori stranieri. Se il fenomeno diventa strutturale e le risorse che il paese assorbe non servono ad accrescere la competitività delle sue produzioni, arriva il momento in cui gli investitori iniziano a temere il rischio di subire delle perdite, vuoi perche il debitore potrebbe dichiarare default e rimborsare solo parzialmente il suo debito, vuoi perchè potrebbe rimborsarlo in una moneta svalutata. La conseguenza è che gli investitori stranieri iniziano a smobilizzare le proprie posizioni sull'Italia (titoli di stato e crediti verso le banche) e richiedere tassi di interesse sempre più elevati per continuare a rifinanziare il debito, quale compensazione del maggiore rischio.

La crisi finanziaria che ha colpito l'Italia è stata innescata proprio dall'accumularsi di questi squilibri (per averne evidenza quantitativa si legga l'ultimo rapporto della Commissione Europea In-depth review for ITALY).

Volendo sintetizzare, si può affermare che l'aggregato costituito dalla spesa corrente dello Stato, dai consumi delle famiglie e dagli investimenti per l'acquisto di immobili ad uso abitativo, dal quale originano gran parte delle importazioni e dell'indebitamento verso l'estero, risulta sbilanciato rispetto alla capacità del nostro sistema economico di vendere beni e servizi ai non residenti. Questo significa che il paese, a livello macroeconomico, è vissuto per molti anni "al di sopra delle proprie possibilità".

L'affermazione non deve suonare come un facile moralismo accusatorio verso le scelte dei singoli: quanti hanno acquistato uno schermo al plasma, l'auto o la casa, lo hanno potuto fare grazie ai propri risparmi o attraverso i prestiti concessi da Banche che avevano valutato i loro redditi congrui per garantirne il rimborso rateizzato. Dalla loro prospettiva, i singoli difficilmente avrebbero potuto immaginare la precarietà della nostra situazione economica.

Adesso però è giunto il tempo di svegliarsi e di parlare chiaro! Bisogna abbandonare i siparietti della politica e approfondire i problemi.

Le manovre di austerità sui conti pubblici e la stretta del credito bancario costituiscono il tentativo disperato di recuperare il tempo perduto: da un lato si impone un arretramento dei consumi interni funzionale a ridurre le importazioni e raffreddare l'inflazione; dall'altro, le imprese manifatturiere sono costrette a ricercare ogni opportunità di espansione delle esportazioni per bilanciare l'arretramento del mercato interno. Le conseguenze negative sono sotto gli occhi di tutti e corrono il rischio di vanificare gli sforzi fatti finora: avvitamento dell'economia in una spirale recessiva, disoccupazione, svalutazione dei crediti bancari e stretta ulteriore sugli affidamenti, sofferenza sociale, instabilità politica e populismo ...

Non mi voglio unire al coro di chi cerca facili consensi limitandosi a sparare a zero contro l'austerità che ci viene imposta dall' "esterno", senza proporre un'autoanalisi severa delle responsabilità "interne" per il formarsi degli squilibri sopra descritti (populisti ce ne sono già abbastanza in giro...).

Soprattutto, quello che oggi manca è la riflessione sulla prospettiva futura: non c'è traccia, a fianco del "tira e molla" sull'austerità, del cantiere per la costruzione di  un nuovo modello di sviluppo dell'economia e della società italiana. E non stiamo parlando di semplici misure congiunturali, come quelle proposte dai governi che si sono finora alternati: il declino dell'Italia è strutturale, origina da lontano ed è stato accelerato da un nuovo assetto geopolitico a noi sfavorevole, e richiede dunque cambiamenti radicali.

Detto in altro modo, se è vero che il crollo della spesa interna non può costituire una soluzione socialmente accettabile al problema del vincolo esterno (anzi!), la sfida deve essere innanzitutto quella di ridefinire obiettivi e destinazione delle risorse che lo Stato già oggi gestisce. Per troppo tempo, infatti, la Politica ha concepito la spesa pubblica ed il lassismo fiscale quali strumenti per garantirsi un consenso immediato, accettando di farsi tirare la giacchetta da gruppi di interesse e categorie.

Questo è lo snodo fondamentale! E non può essere aggirato sostenendo che sia sufficiente tornare ad una lira svalutata. Lo abbiamo già sperimentato: dopo la crisi finanziaria del 1992 la lira perse il 40% del suo valore rispetto al marco tedesco, ma questo ci ha dato un sollievo solo temporaneo e non ci ha impedito di impattare in una seconda crisi ancora più drammatica (per approfondimenti si legga questo post sul mito della svalutazione competitiva).

In questa sede desidero solo condividere alcune "suggestioni" su quelle che dovrebbero essere le priorità d'azione di una politica riformatrice:
  1. Sostenere le imprese e le istituzioni che investono per potenziare i fattori competitivi diversi da quelli di costo (istruzione, ricerca, innovazione, internazionalizzazione, infrastrutture, ...).
  2. Adottare una fiscalità di impresa che da un lato penalizzi i comportamenti predatori (quelli che accrescono i profitti ed i compensi dei manager generando un costo alla società) e, dall'altro, premi le imprese che sono in grado di coniugare il profitto e la creazione di ricchezza per i lavoratori e per il territorio.
  3. Ridefinire il welfare state per garantire un sistema universale di solidarietà sociale basato sulla situazione di reale bisogno, prescindendo dalla difesa dei "diritti acquisiti" (cfr. questa analisi sulle storture del nostro sistema pensionistico).
  4. Investire nel sistema dei beni comuni (la cultura, la tradizione, la socialità, il volontariato, la salvaguardia dell'ambiente naturale, la qualità del tessuto urbano, le strutture pubbliche come parchi, impianti sportivi, biblioteche, ...) con il duplice obiettivo di:
    • permettere alle persone di sviluppare la propria umanità anche al di fuori dei circuiti del consumo dei beni privati (sempre meno accessibili);
    • orientare la domanda interna verso beni (quelli comuni) caratterizzati da un minore contenuto di importazioni.
Ma attenzione, perseguire questi obiettivi significa oggi attuare una grande manovra di redistribuzione del reddito esistente, poiché nell'immediato non è possibile ricorrere all'indebitamento per aumentare le dimensioni della "torta" da spartire.

Nessun cambiamento sarà dunque possibile se non troviamo il coraggio di mettere in discussione rendite di posizione e diritti acquisiti; di superare le resistenze poste da attese radicate e interessi consociativi; di accettare la necessità di fare tutti "un passo indietro" per investire ogni risorsa, ogni energia in una società che sia al tempo stesso più dinamica e più giusta.

Un cordiale saluto.
Emilio L.

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