Partiamo dal presente.
“L’austerity non risana i conti. Anzi, può deprimere i redditi a tal punto da
rendere più difficili i rimborsi dei debiti … Dal
2008 l’Italia ha perso un milione di posti di lavoro ... le insolvenze delle
imprese sono aumentate del novanta percento ... sono il sintomo di una
“mezzogiornificazione” in atto, cioè di una tendenza alla desertificazione
produttiva.”
Vero. Bisogna però sottolineare che l’austerità NON È ALL’ORIGINE DELLA CRISI.
Piuttosto, l’eccesso di austerità costituisce LA SOLUZIONE SBAGLIATA AD
UN PROBLEMA STRUTTURALE DELL’ITALIA, che è emerso all’attenzione del grande
pubblico nel 2011, con la crisi del debito sovrano.Quale problema ? Il fatto che il nostro Paese ha maturato un crescente squilibrio nei conti con l’estero, registrando uscite per importazioni di beni e servizi, rimesse degli immigrati e redditi da capitale, superiori a quanto non riuscisse a incassare per le medesime voci.
La conseguenza di questo
squilibrio tra entrate e uscite è stata il crescente indebitamento con
l’estero: ad un certo punto gli investitori internazionali hanno perso la
fiducia sulla solvibilità (in euro) dello Stato e del sistema bancario,
pretendendo tassi più elevati per continuare a finanziare il rischio-Italia.
L’austerità fiscale ed il credit
crunch del sistema bancario sono stati utilizzati come strumento per rientrare
dal debito estero, deprimendo la domanda interna e, quindi, le
importazioni. In questo senso la manovra ha
avuto successo, riportando la bilancia dei pagamenti in saldo positivo già a
fine 2012.
Fatta questa doverosa
precisazione, ci sono pochi dubbi che
l’austerità, somministrata da sola e in dosi eccessive, rischi di ammazzare il
malato.
Per uscire dalla spirale
recessiva in cui siamo caduti, ci sono fondamentalmente tre opzioni:1. La riforma politica dell’euro, con l’istituzione di forme di mutualizzazione/monetizzazione del debito dei Paesi membri, finalizzate a garantire un livello minimo di assistenza sociale ai cittadini e programmi di investimento per colmare i gap di competitività.
2. Le cosiddette “riforme strutturali” per la competitività, che dovrebbero migliorare in modo strutturale la nostra capacità di esportazione, allentando il vincolo imposto dall’equilibrio della bilancia dei pagamenti.
3. L’uscita dall’euro ed il ritorno alla sovranità monetaria.
Sull’opzione 1. non ci perdiamo tempo,
considerato che non c’è accordo con gli Stati più forti, in primis la Germania.
“L’invito a fare le
riforme strutturali del mercato del lavoro non è nuovo. In Europa le politiche
di flessibilità del lavoro sono state una costante dell’ultimo ventennio. In
materia di diffusione dei contratti precari l’Italia ha persino realizzato un
piccolo record: tra il 1998 e il 2008 l’indice di protezione dei lavoratori
italiani calcolato dall’OCSE è caduto più che in ogni altro paese europeo. Ma a
che pro? Paesi che non hanno attuato politiche di precarizzazione così pesanti
hanno fatto registrare andamenti dell’occupazione migliori del nostro. La Bce
tuttavia insiste con questa ricetta avanzando una spiegazione più articolata.
La sua tesi è che la precarizzazione
riduce la forza contrattuale dei lavoratori e quindi consente di ridurre i
salari: in questo modo i paesi periferici dell’Unione dovrebbero essere in
grado di ridurre il divario di competitività con la Germania senza ricorrere
all’uscita dall’euro e alla svalutazione. Il problema è che per ridurre in modo
consistente quel divario ci vorrebbe una caduta dei salari e dei prezzi di tale
portata da provocare un crollo dei redditi rispetto ai debiti, con effetti
negativi sulla solvibilità. Ancora una volta un circolo vizioso.”
Per sottrarsi all’oppressione
dell’austerità non resterebbe dunque che uscire dall’euro. Ma l’esito non sarebbe scontato. A questo
proposito Brancaccio distingue tra uno
scenario di uscita “DA DESTRA” ed uno “DA SINISTRA”.
L’uscita da destra “sarebbe
un’uscita in perfetta continuità con
l’ideologia liberista e liberoscambista che ha dominato in questi anni e
che, ad avviso di molti studiosi, ci ha condotti al disastro in cui versiamo.
Questa uscita gattopardesca sarebbe affidata ancora una volta al libero gioco
delle forze del mercato. I salari non
verrebbero protetti, le acquisizioni estere non sarebbero limitate, i tassi di
cambio sarebbero lasciati alla libera fluttuazione sui mercati dei cambi e
sarebbe mantenuta a tutti i costi la libera circolazione dei capitali e delle
merci. Inoltre, si continuerebbe a sfruttare i sentimenti anti-politici della
popolazione per svuotare lo Stato delle sue funzioni.”
Un esempio di uscita da destra
citato da Brancaccio è l'abbandono dello SME da pate della lira nel 1992. Come
documentato in questo mio precedente post, i benefici della svalutazione
(peraltro non duraturi) se li accaparrarono interamente le imprese, lasciando i
lavoratori a bocca asciutta ...
L’uscita da sinistra presuppone invece
“la
messa in discussione dei vecchi dogmi liberisti e liberoscambisti. Progredire,
superare la crisi, significa per esempio
riaffermare che gli interessi del lavoro incarnano l’interesse generale.
Significa attribuire nuova centralità
all’intervento pubblico nell’economia, a partire dal settore bancario. E
significa chiarire che se salta la moneta unica bisognerà mettere in discussione, almeno in parte, anche il mercato unico
europeo, in primo luogo stabilendo limiti alle acquisizioni estere e alla
indiscriminata circolazione dei capitali.”
Quale prevarrà tra i due scenari?
Ebbene, secondo Brancaccio l’uscita da destra è la più probabile “perché
il liberismo e il liberoscambismo sono ancora ideologicamente pervasivi, e
perché in fondo è quella che tende a salvaguardare gli interessi dei più forti.”…
“Non risolverebbe i problemi di fondo, si limiterebbe a spostarli nel tempo” ma
è pur sempre meglio così, considerato che
“l’agonia dell’attuale situazione è insostenibile.”
La posizione di Brancaccio ha il pregio di
sollevare, accanto alla proposta di soluzione “macroeconomica” dei problemi (ritorno
alla moneta nazionale e svalutazione del tasso di cambio), anche la questione
dell’inadeguatezza dell’ideologia liberista a garantire lo sviluppo sostenibile
ed equo del nostro Paese.
Il suo limite rimane però quello
di voler comunque anteporre la dimensione “macroeconomica” a
quella “ideologica” o “morale”, rimandando quest’ultima ad un confronto
politico che si dovrebbe aprire dopo l’uscita dall’euro.
In quest’ottica, non stupisce
che le uniche “riforme strutturali” attuabili nell’immediato che vengono in
mente Brancaccio, siano solo quelle perorate dalle istituzione europee e dalle organizzazioni
dei datori di lavoro per indebolire ulteriormente la posizione dei lavoratori.
Tutto è sospeso, rinviato a
dopo la mitica uscita dall’euro, come se la difesa degli interessi del lavoro,
ma anche quelli del capitale produttivo, potessero attendere e non avessero
modo di realizzarsi già nell’attuale contesto. Come se la crisi non costituisse
l’occasione dolorosa per ridefinire obiettivi e priorità della nostra comunità nazionale
e portare finalmente a compimento quella “resa dei conti” capace di ridistribuire le risorse verso la
crescita e l’equità, piegando le rendite di posizione di gruppi e categorie.
Come ho già avuto modo di dire, l’invocazione
ad unirsi nella crociata contro l’euro sembra funzionale proprio a distogliere
l’attenzione dalla dimensione del conflitto distributivo tra le categoria sociali.
Assumendo la buona fede di chi vi
esorta, tale proposta denota comunque una forma di subordinazione all’ideologia
neoliberista, essendo pervasa da una sfiducia di fondo sulla possibilità di
modificare i rapporti di forza all’interno della società, preferendo piuttosto una
narrazione nazionalistica (e interclassista) in cui la "torta" da
spartire si amplia per tutti ...
Queste ad esempio sono le mie:
- DAL CAPITALE FINANZIARIO AL CAPITALE PRODUTTIVO.
- DALLA
SUBORDINAZIONE DEL LAVORO AL CAPITALE, ALLA COMPARTECIPAZIONE PER IL CONSEGUIMENTO
DI UN OBIETTIVO COMUNE.
- DA
CHI POSSIEDE DI PIÙ (E MAGARI NON USA NEANCHE CIO’ CHE HA) A CHI HA PIU’
BISOGNO.
- DAL
CONSUMO (VOLUTTUARIO) NEL PRESENTE ALL’INVESTIMENTO SUL FUTURO.
- DAL
CONSUMO INDIVIDUALE DI BENI MATERIALI ALLA CREAZIONE E CONDIVISIONE DI
BENI PUBBLICI.
Da queste parole d’ordine
discendono gli interrventi prioritari di politica industriale e dei redditi
che ho descritto in questo post e di cui riporto i capitoli:
- Credito di imposta integrale e illimitato per le imprese che investono nel nostro Paese
- Riduzione selettiva e concordata del costo del lavoro a fronte della compartecipazione dei lavoratori al capitale d’impresa
- Misure di deterrenza dei comportamenti predatori a danno dei lavoratori
- Spostamento del carico fiscale su patrimoni, rendite, diritti "acquisiti" di natura politica e basi imponibili non dichiarate al fisco
- Servizio civile obbligatorio a favore della comunità
- Affitto degli alloggi sfitti a favore delle famiglie a basso reddito
Queste, caro Prof. Brancaccio, sono il tipo di “riforme strutturali” di cui si dovrebbe discutere !
Un cordiale saluto.
Emilio L.
mutualizzare il debito dei paesi membri?
RispondiEliminaprovo a riportare questa proposta su scala minore: ti faresti carico del mutuo del tuo vicino di casa? considera che magari si tratta pure di una persona che ha sempre vissuto indebitandosi per darsi alla bella vita.. penso che troveresti mille valide ragioni per non accollarti il suo debito.
uscire dall euro, da sx o da dx non cambia un gran che. in concreto gli effetti (voluti) sono gli stessi: abbassare il costo del lavoro.
ridurre il costo del lavoro uscendo dall euro o diminuendo le retribuzioni (abbassare gli oneri sociali significa togliere reddito differito dei lavoratori!!!)
impoverisce specifici gruppi (lavoratori dipendenti) e arricchiscono altri.
insomma, si abbassa il VALORE del lavoro a favore di un aumento della reddittivita del capitale: il lavoro costa meno, i profitti salgono.
ma questo non lo dice mai nessuno. e poi ci si chiede perche il 10% della popolazione detiene il 50% della ricchezza.
il pensiero unico ha appiattito tutto.
complimenti per il blog!!!
saluti, merlino