La soluzione invocata (o minacciata) è quella di
ritornare alla cara vecchia lira, così da perseguire una svalutazione competitiva
e recuperare il potere di finanziare le attività dello Stato e del sistema
bancario attraverso l’emissione di nuova moneta, sottraendosi ai diktat imposti
dai paesi creditori.
In altro post
si erano evidenziati alcuni dei rischi insiti in una visione politica che
assolutizzi il tema della sovranità monetaria quale causa della crisi italiana
e via unica per il suo superamento. In questa sede, invece, si approfondiscono i possibili esiti dell’uscita dall’euro,
osservando gli effetti dell’ultimo ciclo di svalutazione della
lira avvenuto tra il 1992 ed il 1996.
Il periodo
che prenderemo in considerazione è il decennio 1992-2001. Esso inizia, appunto,
con la crisi finanziaria del 1992 e l’uscita della lira dallo SME, e termina
in corrispondenza dell’esaurirsi del ciclo espansivo guidato dall’economia
americana, a seguito dello scoppio della bolla dei titoli della new economy e
dell’attacco terroristico alle torri gemelle. Nel corso dello stesso, durante l’Ecofin del 24 novembre 1996, venne concordato il rientro
della lira nello SME secondo la nuova parità di 990 lire contro 1 marco, che
costituirà poi la base di calcolo del cambio lira/euro in vigore dal 1°
gennaio 1999.
A
consuntivo, si è trattato di un decennio ben più favorevole all’Italia di
quanto non sarebbe stato quello successivo, dal quale è scaturita la crisi attuale:
·
l’espansione americana e la forza del dollaro
hanno sostenuto le nostre esportazioni;
·
le merci cinesi hanno iniziato a dilagare solo a
partire dal nuovo millennio, sospinte dagli accordi commerciali
internazionali e, successivamente, dell’arretramento del dollaro, cui lo
yuan era agganciato;
·
la Germania era considerata il grande “malato
d’Europa”, con una crescita modesta in linea con quella italiana, una
disoccupazione crescente e le famigerate riforme Hartz del mercato del lavoro
al di là da venire (quindi niente accuse di politica mercantilista o “beggar thy neighbour”).
Mancando tutti questi elementi di “complessità”
con cui oggi ci troviamo a fare i conti, sembra dunque che il decennio in
parola possa costituire il periodo di osservazione migliore per isolare i possibili
effetti di una svalutazione competitiva sull’economia italiana.
Sulla base delle evidenze fattuali di seguito rappresentate, si possono trarre due conclusioni
che contraddicono il mito della svalutazione competitiva come soluzione "automatica", "definitiva" e “indolore” per risolvere i problemi strutturali dell’economia italiana e rialzare le sorti dei ceti popolari:
1. Per un paese
povero di risorse naturali, entità e sostenibilità dei benefici sulla bilancia commerciale di
una svalutazione competitiva "una tantum" non sono scontati, ma dipendono da due fattori:
a. dall’ampiezza
della base industriale e dal posizionamento nei settori posti sulla frontiera
dell’innovazione tecnologica e di prodotto, più dinamici in termini di quota degli scambi mondiali e caratterizzati da
vantaggi competitivi più difficili da replicare, non solo in un'ottica di incremento delle esportazioni, ma anche di sostituzione delle importazioni con le produzioni nazionali;
b. dalla
capacità della classe politica di tenere sotto controllo le tensioni inflazionistiche che erodono i vantaggi di una svalutazone del cambio nominale, controllando il ritmo di espansione della domanda interna (ampliamento deficit pubblico) e promuovendo la concorrenza sui mercati.
In particolare, la fase di svalutazione della lira tra 1992 e 1996 ha permesso sì di accrescere le esportazioni, ma con una progressiva perdita di slancio dovuta alla maggiore inflazione interna rispetto agli altri grandi paesi esportatori europei ed al modello di specializzazione in settori relativamente meno dinamici. La svalutazione, inoltre, non è stata in grado di frenare la crescente dipendenza dell’economia italiana dalle importazioni, non solo di natura energetica, ribadendo anche su questo fronte i sopravvenuti limiti di un modello di sviluppo industriale incapace di presidiare i settori posti sulla frontiera dell’innovazione tecnologica, caratterizzati da più elevata intensità di capitale/ricerca.
In particolare, la fase di svalutazione della lira tra 1992 e 1996 ha permesso sì di accrescere le esportazioni, ma con una progressiva perdita di slancio dovuta alla maggiore inflazione interna rispetto agli altri grandi paesi esportatori europei ed al modello di specializzazione in settori relativamente meno dinamici. La svalutazione, inoltre, non è stata in grado di frenare la crescente dipendenza dell’economia italiana dalle importazioni, non solo di natura energetica, ribadendo anche su questo fronte i sopravvenuti limiti di un modello di sviluppo industriale incapace di presidiare i settori posti sulla frontiera dell’innovazione tecnologica, caratterizzati da più elevata intensità di capitale/ricerca.
2. A dispetto
delle migliori intenzioni, in un contesto di partenza caratterizzato da elevata
disoccupazione e moderazione salariale, la ripresa selettiva dei settori esportatori
favoriti dalla svalutazione competitiva e l’inflazione "importata", recano un rischio di marginalizzazione ulteriore del lavoro salariato
e, simmetricamente, un’opportunità di accumulazione per la proprietà
capitalistica, cui potrebbe anche non corrispondere un aumento proporzionale degli
investimenti e delle assunzioni, nè la loro destinazione ai settori più innovativi (e meno dipendenti dalla competizione sul costo del lavoro).
Su tale tematica, negli anni novanta l'Italia ha conseguito due primati poco invidiabili rispetto agli altri paesi industrializzati: il valore minimo della quota salari sul reddito complesivamente prodotto e il livello massimo di disuguaglianza nella distribuzione del redditi di mercato.
Entrambi questi aspetti chiamano in causa il problema prioritario della qualità della classe dirigente italiana e la sua capacità di uscire dall'attuale impasse: tra l'immobilismo di chi vuole difendere le proprie rendite di posizione e l'agitazione populista di chi intende guadagnare facili consensi da cittadini confusi e arrabbiati.
Sarebbe invece necessario fare leva sull'eccezionalità di questa situazione di crisi per riuscire finalmente a convergere su una coraggiosa politica industriale e dei redditi, che definisca chiaramente gli obiettivi su cui pubblico e privato debbono investire per lo sviluppo futuro del nostro Paese, subordinando ad essi gli egoismi e le rendite che lo hanno finora frenato.
Dopo questa "rivoluzione" si potrà anche affrontare l'eventuale break-up dell'euro ... senza rischiare di esserne travolti ...
Un cordiale saluto.
Emilio L.
__________
SOMMARIO:
1. DINAMICA DEL TASSO DI CAMBIO
2. EVOLUZIONE DELLE ESPORTAZIONI
3. EVOLUZIONE DELLE IMPORTAZIONI
4. GLI EFFETTI SULLA BILANCIA COMMERCIALE CON L’ESTERO
5. ADESIONE ALL’EURO E PARITA’ DI CAMBIO
6. GLI EFFETTI SUI SALARI E SULLA DISTRIBUZIONE DEL REDDITO
1. DINAMICA DEL TASSO DI CAMBIO
Nella
letteratura economica si sostiene che l’elasticità di lungo termine delle
esportazioni e delle importazioni italiane rispetto al tasso cambio sia
negativa. In altri termini, partendo da una situazione di equilibrio della
bilancia commerciale, la svalutazione avrebbe l’effetto non solo di
incrementare le esportazioni ma anche di ridurre le importazioni,
promuovendo fenomeni di sostituzione delle produzioni estere con quelle
nazionali, tali da superare la crescita in valore dovuta all’aumento dei prezzi
unitari relativi alle importazioni non sostituibili.
Partiamo dall’osservare la dinamica del tasso di cambio effettivo reale (REER – real effective
exchange rate), ottenuto depurando il cambio nominale della lira rispetto
alle valute dei trading partner dai
rispettivi differenziali di inflazione (fig. 1).
(Fonte: FMI)
(Fonte: FMI)
Prendendo come riferimento il 1992, la
svalutazione della lira raggiunse quasi il 25% nel 1995. Nel 1996, in vista del
rientro nello SME, la lira si rivalutò sui mercati soprattutto rispetto alle
altre valute europee, riportando il livello della svalutazione intorno al 15%.
2. EVOLUZIONE DELLE ESPORTAZIONI
Come evidenziato in fig. 2, la svalutazione della lira ha avvantaggiato la crescita delle
esportazioni italiane (beni e servizi) rispetto alle altre due principali economie
europee (Germania e Francia).
(Fonte: elaborazione su dati World Bank)
La crescita delle esportazioni italiane ha però subito un forte rallentamento a partire dal 1996 (fig. 3), per effetto principalmente della rivalutazione del tasso di cambio e in parte, come evidenziato da Faini e Sapir [1], della specializzazione del nostro sistema produttivo in settori divenuti relativamente meno dinamici in termini di crescita delle esportazioni mondiali (tessile-abbigliamento, cuoio-calzature, articoli in minerali non metalliferi).
(Fonte: elaborazione su dati World Bank)
3. EVOLUZIONE DELLE IMPORTAZIONI
Passiamo a considerare l’andamento delle
importazioni italiane. Come evidenziato in fig. 4 la svalutazione della lira non ha affatto frenato il valore delle
importazioni, anzi esse sono cresciute più di quanto non sia avvenuto per
Germania e Francia!
Nelle equazioni di contabilità nazionale le importazioni rappresentano, insieme al prodotto interno lordo (PIL), la fonte delle risorse impiegate per alimenatare consumi, investimenti ed esportazioni. Adottando tale schema concettuale, la fig. 5 descrive l’evoluzione del grado di dipendenza dell’economia italiana dalle risorse importate dall’estero, misurato su base annua come rapporto percentuale tra la crescita delle importazioni in valore e la crescita dell’aggregato composto da consumi, investimenti ed esportazioni.
Nel trentennio che va dal 1962 al 1991 il grado di dipendenza dell’economia italiana dalle importazioni oscilla attorno ad un valore medio tra il 15% ed il 17% a seconda della durata del periodo preso in considerazione per il calcolo. Nel decennio 1992–2001 il grado di dipendenza medio è salito al 23,6%, nonostante la svalutazione del tasso di cambio reale.
Guardando sempre alla fig. 5, la relazione indicata in letteratura tra dinamica
delle importazioni e tasso di cambio si è verificata solo nel 1993, quando alla
svalutione della lira si è accompagnata una forte riduzione del grado di
dipendenza dalle esportazioni. Negli anni a seguire, però, tale relazione
svanisce!
In realtà, la
tendenza strutturale dell’economia italiana è quella di una maggiore dipendenza
dalle importazioni, con flessioni congiunturali solo in corrispondenza delle
fasi di rallentamento economico (fig. 6).
La natura di questa dipendenza dalle importazioni può essere meglio compresa osservando (tabella 1) la variazione occorsa al saldo della bilancia commerciale tra l’anno 1995 ed il 2000, articolato per singolo settore merceologico.
(Fonte: elaborazione su dati Istat, Indagini sul
commercio con l’estero e European Commission, External and intra-European Union
trade - Statistical yearbook)
Guardando ai settori che hanno fatto registrare i passivi più consistenti, emerge che la crescente dipendenza dell’economia italiana dalle importazioni ha riguardato due ambiti:
·
quello “storico”
dell’energia e delle altre materie prime;
·
quello dei
settori manifatturieri a più elevata intensità di capitale/ricerca ove il peso
dell’Italia è andato nel tempo arretrando (autoveicoli, elettronica,
informatica, telecomunicazioni, etc.).
4. GLI EFFETTI SULLA BILANCIA
COMMERCIALE CON L’ESTERO
Mettendo adesso insieme (fig. 7) la crescita
delle esportazioni e quella delle impotazioni nel decennio considerato, si può
osservare come la bilancia commerciale
dell’Italia (in pareggio nel 1992) abbia mostrato saldi positivi crescenti fino
al 1996 che hanno contribuito a sostenere la crescita del PIL. Mentre negli anni successivi, tali saldi
si sono ridotti fin quasi ad annullarsi nel 2000.
(Fonte: elaborazione su dati World Bank)
In sintesi, il processo di svalutazione della lira tra 1992 e 1996 (vi includiamo anche la parziale correzione avvenuta tra 1995 e 1996):
1.
ha permesso
all’Italia di accrescere le proprie esportazioni, grazie ad un contesto
internazionale ancora (per poco...) favorevole (espansione americana, forza del
dollaro e minore pressione concorrenziale da Cina e Germania), ma con una
progressiva perdita di slancio dovuta al differenziale dell’inflazione interna
rispetto agli altri grandi paesi esportatori europei (si veda oltre) ed al
modello di specializzazione in settori relativamente meno dinamici (produzioni
tradizionali del made in italy e industria leggera);
2.
non è stata
in grado di frenare la crescente dipendenza dell’economia italiana dalle
importazioni, non solo energetiche, ribadendo i sopravvenuti limiti di un
modello di sviluppo industriale incapace di presidiare i settori posti sulla
frontiera dell’innovazione tecnologica, caratterizzati da piùelevata intensità
di capitale/ricerca.
5. ADESIONE ALL’EURO E PARITA’ DI
CAMBIO
Come detto in precedenza, il cambio lira/euro
entra in vigore il 1° gennaio 1999, ma le parità di cambio sono già state definite
da due anni, in occasione dell’Ecofin del 24 novembre 1996 che sancì il rientro
della lira nello SME.
Per rispondere a quanti, aizzati da capipopolo di
varia proveninenza e professori arrembanti, denunciano che le parità fissate a
fine 1996 fossero inique per l’Italia, basti evidenziare che il trend di
apprezzamento della lira sul marco si era ormai consolidato sul mercato dei
cambi da oltre un anno e mezzo (fig. 8) e che esso rispecchiava un saldo
ampiamente positivo della bilancia commerciale e, complessivamente, delle
partite correnti (fig. 9).
Fig. 8 – Evoluzione
tasso di cambio lira/marco periodo 1992-1996
(Fonte: elaborazione su dati Banca d’Italia e FMI)
Dal 1997 al 2001 la progressiva rivalutazione del tasso di cambio verso Germania e Francia avviene solo in termini reali, a causa della maggiore inflazione interna sperimentata in Italia rispetto agli altri Paesi (complessivamete +11 p.p. rispetto alla Germania e +6,6 p.p rispetto alla Francia; vedi fig. 10). Fenomeno non più attribuibile alla dinamica dei prezzi all’importazione, nè a politiche economiche espansive o alla pressione salariale (che non ci sono state) o, ancora, alle politiche “beggar thy neighbour” dei "cattivi" tedeschi, bensì (come vedremo fra poco) al conflitto distributivo che ha visto la proprietà capitalistica accaparrarsi una fetta crescente del reddito nazionale, a scapito del lavoro salariato. Alla faccia di chi va strepitando che è stata tutta colpa dell’euro ...
(Fonte: elaborazione su dati World Bank e AMECO)
6. GLI EFFETTI SUI SALARI E SULLA DISTRIBUZIONE
DEL REDDITO
Da ultimo, cerrchiamo di accertare se la
svalutazione della lira abbia favorito il lavoro salariato e permesso una più
equa distribuzione del reddito, avvalendoci anche delle evidenze contenute in
due ottimi contributi di Stefano Perri [2, 3] pubblicati sulla rivista online www.economiaepolitica.it
Innanzitutto, la fig. 11 indica come i lavoratori salariati italiani non abbiano
tratto alcun vantaggio economico della crescita della produttività nel periodo
considerato, a differenza di quanto avvenuto per i lavoratori in Germania e
Francia.
(Fonte citata)
Come
conseguenza, l’Italia ha conseguito in questo periodo due poco invidiabili
primati sugli altri paesi industrializzati:
1.
il livello
minimo di quota salari sul reddito complesivamente prodotto (fig. 12);
2.
il livello
massimo di disuguaglianza nella distribuzione del redditi di mercato (prima
delle tasse e dei trasferimenti statali), come misurato attraverso l’indice
di concentrazione di Gini (fig. 13), a fronte peraltro di una diminuita
capacità ridistributiva del welfare state (fig. 14).
Fig. 12 – Adjusted wage share
Fig. 13– Indice Gini redditi di mercato (prima delle tasse e dei trasferimenti)
(Fonte citata)
[1] Riccardo Faini, André Sapir, “Un modello obsoleto? Crescita e specializzazione dell’economia italiana”, 2005.
[2] Stefano Perri, “L’OCSE e la diseguaglianza: a che punto è la notte?”, 2011
[3] Stefano Perri, “Ascesa e caduta del modello economico italiano”, 2013
grande post: l'ho ritweettato.
RispondiEliminai miei auguri di un 2014 sempre così produttivo...
Ti ringrazio per l'incoraggiamento!
EliminaBuon anno anche a te.