"L'illusione è la gramigna più tenace della coscienza collettiva: la storia insegna, ma non ha scolari". (Antonio Gramsci)

venerdì 18 aprile 2014

Il "bluff" di Renzi

Quello di Renzi è il bluff di un abile istrione che persegue il proprio sogno di potere? Oppure una scommessa coraggiosa sulla possibilità di alimentare la crescita cercando, innanzitutto, di orientare "al bello" le aspettative di famiglie e imprese ?

Questione di sfumature: a poco più di due mesi dall'insediamento nessuno può esprimere un giudizio definitivo sull'azione di governo ... e la prevalenza di una interpretazione o dell'altra dipendono dal livello di fiducia o di pregiudizio che si nutrono.

Una cosa, però, è certa: per i tempi ed i modi con cui si è realizzata l'ascesa di Renzi, essa rappresenta l'ultima, disperata mossa dei partiti di governo di arginare il trionfo dei movimenti di protesta ed euroscettici alle prossime elezioni europee di maggio.

Rispettando la par conditio seguono due punti di vista diversi: quello lapidario di Pierfranco Pellizzetti pubblicato su MicroMega, e poi quello più attendista e speranzoso di Fabrizio Forquet sul Sole24Ore


di PIERFRANCO PELLIZZETTI    1 aprile 2014

Fondato il 14 ottobre 2007, il PD (Partito Democratico) è l’organizzazione di orientamento riformista che raccoglie gli esuli di partito della Prima Repubblica italiana, collassata all’inizio degli anni Novanta sotto i colpi delle inchieste giudiziarie sul malcostume politico e la corruzione: gli ex comunisti e gli ex democristiani; cioè quelli che erano stati gli storici avversari per almeno mezzo secolo di vita repubblicana.

In quel primo momento fondativo i dati quantitativi lasciavano prevedere che la componente più numerosa, rappresentata dalla potente struttura burocratica di sinistra, avrebbe inglobato il partner cattolico. E invece è avvenuto esattamente l’opposto: forti delle superiori tecniche del potere apprese alla scuola di Madre Romana Chiesa, sono stati i quarantenni formatisi nelle parrocchie a conquistare la leadership. Prima Enrico Letta e ora il sindaco di Firenze Matteo Renzi.

Abili e adeguatamente cinici, ma sempre con un sorriso accattivante secondo la migliore (?) tradizione della loro cultura; come ci ha ricordato il modo con cui l’attuale premier ha “fatto le scarpe” al suo predecessore mentre gli giurava eterna solidarietà. A conferma che dietro l’aspetto giovanile e l’età anagrafica dei nuovi politici è tutto un mondo antico che ritorna, dopo la parentesi della Seconda Repubblica dominata dalla personalità da “grande venditore” di Silvio Berlusconi (il celebre giornalista Indro Montanelli lo definiva “il miglior piazzista d’Italia”); il quale – del resto – influenza largamente anche “il dopo”. A cominciare dalla presunzione che tutto si riduca a comunicazione ed effetti d’annuncio, propria di Renzi.

Infatti due erano le strategie tipiche della lunga stagione democristiana: avvolgere ogni problema nello sfinimento di continui rimandi, simulare la frenesia del movimento per dare l’impressione di una grande energia nel predisporre appropriate soluzioni. La prima modalità del revival era stata riportata in auge dal curiale Letta, l’altra dall’istrionico Renzi. Difatti sono decenni che in Italia si parla di riforme, ma nessuno è ancora riuscito a capire in concreto di che cosa si trattasse: pura mistica per tenere a bada un Paese in declino dagli inizi degli anni Ottanta; ossia da quando la politica si ridusse esclusivamente a occupazione del potere e iniziò a spegnersi la forza propulsiva di quel sistema economico che aveva fatto da locomotiva della modernizzazione italiana.

Dunque, la ghiacciaia oppure la ruota in cui corre restando al punto di partenza il criceto in gabbia. E Renzi si presenta come colui che corre. Perché – in effetti – se non fa in fretta la sua parabola politica può avere precocemente termine. Ma qui si tratta solo di strategie di potere, non certo delle tanto strombazzate “rivoluzioni”.

Letta è stato fatto fuori perché c’era il rischio che si rinforzasse incassando i meriti di un’ipotetica ripresa congiunturale della situazione economica italiana. Ma il governo che lo ha sostituito si sostiene sulla maggioranza fotocopia della precedente compagine governativa (l’alleanza con la scheggia secessionista di Forza Italia, il partito personale di Berlusconi, e i centristi), annuncia un programma praticamente identico.

Semmai di innovativa c’è la spregiudicatezza con cui si pensa di riformare l’impianto costituzionale del Paese, in particolare la legge elettorale, intrecciando un rapporto anomalo con il Berlusconi, tuttora signore e padrone di quella che in Italia si presume essere la Destra; il quale personaggio ormai era stato spinto ai margini della vita pubblica da una condanna passata in giudicato per gravissimi reati fiscali (e intanto incombono sul suo capo di ottantenne altri processi ignominiosi: favoreggiamento della prostituzione minorile e compra-vendita di parlamentari). Un recupero dal chiaro sapore opportunistico che crea una situazione assolutamente inedita (e altamente contraddittoria) di una leadership a “geometria variabile”; sostenuta da due maggioranze differenti: una per la gestione quotidiana del governo, l’altra per riformare lo Stato.

Non a caso il progetto Renzi-Berlusconi di legge elettorale (“Italicum”) è stato giudicato dal decano dei politologi italiani Giovanni Sartori “un pasticcio”, ma garantisce alla partitocrazia di mantenere la propria presa sulla società nazionale. Anche questa una tradizione antica. Ma ancora più antica è la pratica da imperatore romano del “panem et circenses” (pane e giochi) con cui Renzi ha dato avvio alle sue esternazioni pubbliche: la promessa entro fine maggio di un aumento pari a mille euro per tutti i redditi da lavoro più bassi. Una manovra a vantaggio di dieci milioni di italiani con un costo previsto in almeno dieci miliardi di euro. Di cui nessuno sa dove si trovino le coperture finanziarie in un bilancio dello Stato in profondo rosso. Tanto che un alto dirigente pubblico si è domandato: “ma Renzi è pazzo, ha in tasca garanzie segrete o è solo un giocatore di poker?”.

Dato che il giovane premier matto non è e gli incontri a Bruxelles con Barroso &Co. di giovedì 20 marzo hanno confermato che l’Unione europea non fa sconti e regali a nessuno in materia di finanza allegra, l’unica interpretazione possibile è che si tratti di un bluff: promettere una manciata di soldi per incassare consensi alle prossime elezioni europee. Quelle che risulteranno la prima verifica elettorale del nuovo corso politico renziano.

In fondo è ancora una vecchissima abitudine italiana, quella della compravendita dei suffragi. Classico il caso anni Cinquanta del sindaco di Napoli – il facoltoso armatore Achille Lauro – che scambiava consensi con scarpe. Ma attenzione: una prima del voto e l’altra dopo, a verifica che nell’urna elettorale non ci fossero stati scherzi da parte dei beneficiati. Mentre la città degradava, il suo slogan era “qui nessuno è fesso”. Potrebbe valere anche per il giovane Matteo Renzi?

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di FABRIZIO FORQUET    19 aprile 2014
Aveva detto che avrebbe messo in busta paga 80 euro in più a una platea di 10 milioni di italiani e lo ha fatto. Questa è la prima considerazione da fare su Matteo Renzi e il suo decreto.
Una considerazione che è in sé un riconoscimento positivo per un presidente del Consiglio che ha avuto il coraggio di annunciare un obiettivo ambizioso e ha poi fatto di tutto per mantenere l'impegno. Tante volte, in passato, gli annunci dei premier erano rimasti lettera morta. Questa volta non è andata così, e la novità va apprezzata.
Il modo con cui si danno quei soldi, però, fa emergere non pochi dubbi. Innanzitutto perché in extremis sono rimasti fuori gli incapienti, i più poveri, malgrado le promesse fatte. Ma soprattutto perché il bonus vale solo per il 2014. Renzi può anche dire che si tratta di un intervento strutturale, e sicuramente la sua intenzione è di renderlo tale, ma in realtà l'articolo 1 del decreto afferma con chiarezza che dal primo gennaio del 2015 l'effetto del bonus si esaurisce. È vero che poi all'articolo 52 si istituisce un Fondo per rendere permanente il beneficio fiscale, ma questo obiettivo viene di fatto rimandato alla prossima legge di stabilità. Sarà in quella sede che andranno reperite le risorse per i 10 miliardi necessari per il 2015 e gli anni a seguire.

Sia Renzi che Padoan - positiva per ora la collaborazione tra i due - ieri hanno elencato le coperture potenziali anche per il 2015, ma la tabella fornita alla stampa da Palazzo Chigi ne evidenzia la genericità e la debolezza: dai 5 miliardi sull'acquisto dei beni e servizi ai 3 iscritti a un ipotetico recupero di pressione fiscale. Se ne riparlerà in autunno, con la manovra annuale, ma intanto non mancano le perplessità anche sulle coperture per il 2014. Circa un terzo dei 6,9 miliardi arrivano da un taglio a beni e servizi che somiglia ancora troppo a un intervento lineare. Quasi 2 miliardi arrivano poi dal prelievo sulle banche. Questo farà piacere a molti, considerata la scarsa popolarità di cui godono gli istituti nell'opinione pubblica, ma va detto che così si contribuisce a indebolire ulteriormente il credito alle imprese e all'economia reale. Si tratta, peraltro, di una partita una tantum e questo, come si sa, non è un bene se si vuole ridurre il cuneo fiscale strutturalmente.
Altrettanto una tantum è l'introito di 600 milioni che è attribuito all'Iva frutto dei pagamenti della Pa. C'è poi l'intervento di un miliardo sugli incentivi e le agevolazioni alle imprese, in alcuni casi giustificato, ma che di certo nel suo complesso non favorisce il Pil.
Di fatto la quota di coperture che si può attribuire a una vera spending review è molto ridotta. Ed è qui che emerge la questione di fondo che riguarda non solo questo decreto, e non solo il governo Renzi, ma più in generale la capacità dei governi di rilanciare l'economia affrontando il nodo dei costi e dell'efficienza della macchina pubblica.

La determinazione con cui Matteo Renzi mette sotto assedio la burocrazia e i suoi sacerdoti è un cambiamento straordinariamente positivo. La raffica dei tweet con cui ha presentato ieri il decreto è un assalto ai tanti conservatori distribuiti nelle anse della pubblica amministrazione. Ottimo l'obiettivo di ridurre il numero delle società partecipate da 8mila a non più di mille. La trasparenza totale sugli acquisti e gli stipendi della pubblica amministrazione, attraverso la pubblicazione dei dati su internet, può diventare davvero una rivoluzione per il nostro Paese. La riduzione dei metri quadrati oggi occupati dagli uffici pubblici, il tetto di cinque auto blu per ministero, la scure sui tanti costi della politica sono tutte novità che vanno apprezzate e sostenute.
Ma non basterà la furia verbale per vincere questa battaglia. E neppure basta mettere nel titolo di questo decreto legge «un'Italia coraggiosa e semplice». Il coraggio, quello politico si intende, va poi praticato. Le scelte, difficili e dolorose, sui tagli di spesa vanno fatte. E Renzi, questa volta, al di là delle parole, ha dimostrato che anche per lui intervenire sui nodi politici della spesa è una strada tutta in salita.

I tagli alla sanità, infatti, sono progressivamente scomparsi bozza dopo bozza. L'annunciato intervento draconiano sugli stipendi pubblici si è di fatto limitato a introdurre il tetto massimo di circa 240mila euro, che è una misura popolare, ma che riguarda una platea molto ridotta di altissimi burocrati, mentre sono saltati tutti i tetti intermedi sui dirigenti (sulla gran parte dei magistrati e dei diplomatici, per intenderci). Anche su beni e servizi si è spalmata la sforbiciata su tutte le amministrazioni, attribuendo loro la responsabilità, in prima istanza, di individuare i tagli.
Si conferma insomma che, quando si arriva al dunque, tagliare la spesa pubblica resta, per la politica italiana, un'azione molto difficile. E così il bonus si dà, ma solo per il 2014 (e tagliando fuori gli incapienti). L'Irap si riduce, ma solo per una quota marginale. Il cuneo fiscale si affronta, ma non si abbatte. Insomma, al di là delle buone intenzioni, rischia di restare un'utopia l'ambizione di ridurre in modo significativo la pressione fiscale su lavoro e imprese, restituendo al Paese la capacità di crescere e competere.
Se ne riparlerà. In fondo Renzi è al governo da poco più di due mesi e ha ereditato un lavoro sulla spending review non suo. È vero che l'uomo va di corsa. Ma tagliare i nodi gordiani della burocrazia italiana non è cosa da un bimestre. Ora si andrà a votare. E dall'esito di quel voto dipenderà molto del futuro di questo governo e delle sue politiche. Intanto, presidente Renzi, "benvenuto tra gli umani".

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