"L'illusione è la gramigna più tenace della coscienza collettiva: la storia insegna, ma non ha scolari". (Antonio Gramsci)

domenica 19 gennaio 2014

Caro Brancaccio, siamo in crisi ... anche di idee

Ripropongo di seguito alcuni brani significativi (in corsivo) di una recente intervista rilasciata dal Prof. Emiliano Brancaccio, per focalizzare il limite della proposta politica di uscita dall’euro.
 
Partiamo dal presente. “L’austerity non risana i conti. Anzi, può deprimere i redditi a tal punto da rendere più difficili i rimborsi dei debiti … Dal 2008 l’Italia ha perso un milione di posti di lavoro ... le insolvenze delle imprese sono aumentate del novanta percento ... sono il sintomo di una “mezzogiornificazione” in atto, cioè di una tendenza alla desertificazione produttiva.”

Vero. Bisogna però sottolineare che l’austerità NON È ALL’ORIGINE DELLA CRISI.
Piuttosto, l’eccesso di austerità costituisce LA SOLUZIONE SBAGLIATA AD UN PROBLEMA STRUTTURALE DELL’ITALIA, che è emerso all’attenzione del grande pubblico nel 2011, con la crisi del debito sovrano.

Quale problema ? Il fatto che il nostro Paese ha maturato un crescente squilibrio nei conti con l’estero, registrando uscite per importazioni di beni e servizi, rimesse degli immigrati e redditi da capitale, superiori a quanto non riuscisse a incassare per le medesime voci.

La conseguenza di questo squilibrio tra entrate e uscite è stata il crescente indebitamento con l’estero: ad un certo punto gli investitori internazionali hanno perso la fiducia sulla solvibilità (in euro) dello Stato e del sistema bancario, pretendendo tassi più elevati per continuare a finanziare il rischio-Italia.
L’austerità fiscale ed il credit crunch del sistema bancario sono stati utilizzati come strumento per rientrare dal debito estero, deprimendo la domanda interna e, quindi, le importazioni.  In questo senso la manovra ha avuto successo, riportando la bilancia dei pagamenti in saldo positivo già a fine 2012.

 
Fatta questa doverosa precisazione, ci sono pochi dubbi che l’austerità, somministrata da sola e in dosi eccessive, rischi di ammazzare il malato.
Per uscire dalla spirale recessiva in cui siamo caduti, ci sono fondamentalmente tre opzioni:

1.      La riforma politica dell’euro, con l’istituzione di forme di mutualizzazione/monetizzazione del debito dei Paesi membri, finalizzate a garantire un livello minimo di assistenza sociale ai cittadini e programmi di investimento per colmare i gap di competitività.
 
2.       Le cosiddette “riforme strutturali” per la competitività, che dovrebbero migliorare in modo strutturale la nostra capacità di esportazione, allentando il vincolo imposto dall’equilibrio della bilancia dei pagamenti.

3.       L’uscita dall’euro ed il ritorno alla sovranità monetaria.

 

lunedì 6 gennaio 2014

Fuori dall'euro: il mito della svalutazione competitiva

In vista delle elezioni europee di maggio si è rimpolpato il fronte delle forze politiche che si dichiarano contrarie ai vincoli di austerità imposti da “questo” euro, o all’euro tout court.

La soluzione invocata (o minacciata) è quella di ritornare alla cara vecchia lira, così da perseguire una svalutazione competitiva e recuperare il potere di finanziare le attività dello Stato e del sistema bancario attraverso l’emissione di nuova moneta, sottraendosi ai diktat imposti dai paesi creditori.

In altro post si erano evidenziati alcuni dei rischi insiti in una visione politica che assolutizzi il tema della sovranità monetaria quale causa della crisi italiana e via unica per il suo superamento. In questa sede, invece, si approfondiscono i possibili esiti dell’uscita dall’euro, osservando gli effetti dell’ultimo ciclo di svalutazione della lira avvenuto tra il 1992 ed il 1996.

Il periodo che prenderemo in considerazione è il decennio 1992-2001. Esso inizia, appunto, con la crisi finanziaria del 1992 e l’uscita della lira dallo SME, e termina in corrispondenza dell’esaurirsi del ciclo espansivo guidato dall’economia americana, a seguito dello scoppio della bolla dei titoli della new economy e dell’attacco terroristico alle torri gemelle. Nel corso dello stesso, durante l’Ecofin del 24 novembre 1996, venne concordato il rientro della lira nello SME secondo la nuova parità di 990 lire contro 1 marco, che costituirà poi la base di calcolo del cambio lira/euro in vigore dal 1° gennaio 1999.

A consuntivo, si è trattato di un decennio ben più favorevole all’Italia di quanto non sarebbe stato quello successivo, dal quale è scaturita la crisi attuale:

·       l’espansione americana e la forza del dollaro hanno sostenuto le nostre esportazioni;

·       le merci cinesi hanno iniziato a dilagare solo a partire dal nuovo millennio, sospinte dagli accordi commerciali internazionali e, successivamente, dell’arretramento del dollaro, cui lo yuan era agganciato;

·      la Germania era considerata il grande “malato d’Europa”, con una crescita modesta in linea con quella italiana, una disoccupazione crescente e le famigerate riforme Hartz del mercato del lavoro al di là da venire (quindi niente accuse di politica mercantilista o “beggar thy neighbour”).

Mancando tutti questi elementi di “complessità” con cui oggi ci troviamo a fare i conti, sembra dunque che il decennio in parola possa costituire il periodo di osservazione migliore per isolare i possibili effetti di una svalutazione competitiva sull’economia italiana.


Sulla base delle evidenze fattuali di seguito rappresentate, si possono trarre due conclusioni che contraddicono il mito della svalutazione competitiva come soluzione "automatica", "definitiva" e “indolore” per risolvere i problemi strutturali dell’economia italiana e rialzare le sorti dei ceti popolari:
 

1.     Per un paese povero di risorse naturali, entità e sostenibilità dei benefici sulla bilancia commerciale di una svalutazione competitiva "una tantum" non sono scontati, ma dipendono da due fattori:

a.     dall’ampiezza della base industriale e dal posizionamento nei settori posti sulla frontiera dell’innovazione tecnologica e di prodotto, più dinamici in termini di quota degli scambi mondiali e caratterizzati da vantaggi competitivi più difficili da replicare, non solo in un'ottica di incremento delle esportazioni, ma anche di sostituzione delle importazioni con le produzioni nazionali;

b.     dalla capacità della classe politica di tenere sotto controllo le tensioni inflazionistiche che erodono i vantaggi di una svalutazone del cambio nominale, controllando il ritmo di espansione della domanda interna (ampliamento deficit pubblico) e promuovendo la concorrenza sui mercati.


   In particolare, la fase di svalutazione della lira tra 1992 e 1996 ha permesso sì di accrescere le esportazioni, ma con una progressiva perdita di slancio dovuta alla maggiore inflazione interna rispetto agli altri grandi paesi esportatori europei ed al modello di specializzazione in settori relativamente meno dinamici. La svalutazione, inoltre, non è stata in grado di frenare la crescente dipendenza dell’economia italiana dalle importazioni, non solo di natura energetica, ribadendo anche su questo fronte i sopravvenuti limiti di un modello di sviluppo industriale incapace di presidiare i settori posti sulla frontiera dell’innovazione tecnologica, caratterizzati da più elevata intensità di capitale/ricerca.
 
 
2.     A dispetto delle migliori intenzioni, in un contesto di partenza caratterizzato da elevata disoccupazione e moderazione salariale, la ripresa selettiva dei settori esportatori favoriti dalla svalutazione competitiva e l’inflazione "importata", recano un rischio di marginalizzazione ulteriore del lavoro salariato e, simmetricamente, un’opportunità di accumulazione per la proprietà capitalistica, cui potrebbe anche non corrispondere un aumento proporzionale degli investimenti e delle assunzioni, nè la loro destinazione ai settori più innovativi (e meno dipendenti dalla competizione sul costo del lavoro).
   
     
     Su tale tematica, negli anni novanta l'Italia ha conseguito due primati poco invidiabili rispetto agli altri paesi industrializzati: il valore minimo della quota salari sul reddito complesivamente prodotto e il livello massimo di disuguaglianza nella distribuzione del redditi di mercato.

 
Entrambi questi aspetti chiamano in causa il problema prioritario della qualità della classe dirigente italiana e la sua capacità di uscire dall'attuale impasse: tra l'immobilismo di chi vuole difendere le proprie rendite di posizione e l'agitazione populista di chi intende guadagnare facili consensi da cittadini confusi e arrabbiati.

Sarebbe invece necessario fare leva sull'eccezionalità di questa situazione di crisi per riuscire finalmente a convergere su una coraggiosa politica industriale e dei redditi, che definisca chiaramente gli obiettivi su cui pubblico e privato debbono investire per lo sviluppo futuro del nostro Paese, subordinando ad essi gli egoismi e le rendite che lo hanno finora frenato. 

Dopo questa "rivoluzione" si potrà anche affrontare l'eventuale break-up dell'euro ... senza rischiare di esserne travolti ...


Un cordiale saluto.

Emilio L.

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SOMMARIO:

1. DINAMICA DEL TASSO DI CAMBIO

2. EVOLUZIONE DELLE ESPORTAZIONI

3. EVOLUZIONE DELLE IMPORTAZIONI

4. GLI EFFETTI SULLA BILANCIA COMMERCIALE CON L’ESTERO

5. ADESIONE ALL’EURO E PARITA’ DI CAMBIO

6. GLI EFFETTI SUI SALARI E SULLA DISTRIBUZIONE DEL REDDITO